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Il diabete

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la prevalenza del diabete è in continuo aumento. Attualmente, nel mondo, le persone che ne sono affette superano i 420 milioni e, ogni anno, ben 1,5 milioni muoiono a causa di questa malattia. A crescere è soprattutto il diabete di tipo 2 (90% dei casi), la cui insorgenza è influenzata da sovrappeso, obesità, abitudine al fumo, alimentazione poco salutare e sedentarietà.

Il diabete

Il diabete, detto anche diabete mellito, è una malattia metabolica cronica non trasmissibile caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di zucchero (glucosio) nel sangue (iperglicemia), dovuti ad un’alterazione della quantità o del funzionamento dell’ormone pancreatico insulina.

Attualmente, in tutto il mondo, circa 422 milioni di persone ne sono affette e, ogni anno, si contano 1,5 milioni di decessi direttamente attribuibili a questa patologia, facendo del diabete la nona causa di morte a livello globale (dati del 2019). Rispetto agli anni precedenti, la prevalenza di questa patologia è in costante crescita e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) prevede un ulteriore aumento entro il 2030.

Ad incrementare è, in particolare, il cosiddetto diabete di tipo 2, che rappresenta circa il 90% di tutti i casi di diabete nel mondo. Ciò dipende non solo dal progressivo invecchiamento della popolazione, ma anche dalla crescente diffusione di comportamenti poco salutari, come scorretta alimentazione e sedentarietà, che aumentano la probabilità di sviluppare sovrappeso ed obesità e, di conseguenza, di andare incontro a questa patologia.

Diabete: i dati italiani

I dati di prevalenza del diabete in Italia provengono dal monitoraggio annuale condotto dall’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) sullo stato di salute della popolazione e dal sistema di sorveglianza PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia); quest’ultimo raccoglie informazioni su stili di vita e fattori di rischio comportamentali degli adulti del nostro paese.

Secondo i dati ISTAT 2020, la prevalenza del diabete diagnosticato in Italia è di circa il 5,9% (sia negli uomini che nelle donne) che corrisponde a più di 3,5 milioni di persone, con un trend in lenta ma progressiva crescita. La prevalenza aumenta al crescere dell’età, fino a raggiungere il 21% negli individui dai 75 anni in su.

I dati ottenuti dal sistema sorveglianza Passi 2020-2021, che rilevano esclusivamente la prevalenza del diabete di tipo 2, mostrano quanto segue.

  • Poco meno del 5% della popolazione adulta (18-69 anni) riferisce una diagnosi di diabete di tipo 2.
  • Il diabete di tipo 2 colpisce maggiormente gli uomini delle donne (5,1% versus 4,2%).
  • Questa malattia è più frequente nelle fasce di popolazione socio-economicamente svantaggiate (sfiora il 16% tra chi non ha alcun titolo di studio, o possiede la licenza elementare, e arriva all’8% tra le persone che hanno molte difficoltà economiche).
  • Le prevalenze più alte di diabete di tipo 2 si osservano in Valle d’Aosta (8,9%), Calabria (6,5%), Sicilia (5,7%), Abruzzo (5,4%) e Campania (5,2%).

Diabete: meccanismi biologici e complicanze

Il diabete è una malattia metabolica cronica, non trasmissibile, dovuta ad un aumento della glicemia (iperglicemia), ovvero dei livelli di zucchero (glucosio) nel sangue. Questa patologia viene anche chiamata diabete mellito (dal latino mellitus, “mielato” ovvero, in senso figurato, “dolce come il miele”) perché, quando se ne è affetti, le urine diventano dolci a causa della quantità elevata di glucosio che viene eliminato dai reni.

L’iperglicemia caratteristica del diabete può dipendere da tre fattori.

  • Un’insufficiente secrezione dell’ormone insulina, da parte delle cellule beta che si trovano nelle cosiddette isole di Langerhans, agglomerati cellulari situati nel pancreas.
  • Un’alterazione nel funzionamento biologico dell’insulina che, sebbene secreta nelle normali quantità dal pancreas, non riesce a svolgere adeguatamente le sue funzioni in quanto le cellule degli organi bersaglio (muscolo, fegato, tessuto adiposo) non le rispondono più adeguatamente.
  • Una combinazione delle condizioni precedenti.

Quando mangiamo alimenti contenenti carboidrati, essi vengono digeriti dal nostro organismo, che li scompone nelle unità più piccole possibili, i monosaccaridi, carboidrati semplici costituiti da un’unica unità di zucchero. I carboidrati complessi vengono prevalentemente scomposti nel monosaccaride glucosio che rappresenta la fonte energetica principale per il nostro organismo. Una volta assorbito a livello intestinale, il glucosio entra nel circolo sanguigno e, per essere trasferito all’interno delle cellule, ha bisogno dell’ormone pancreatico insulina. Quando i livelli di glucosio ematico si alzano, le cellule beta del pancreas vengono “stimolate” a rilasciare l’insulina nel circolo sanguigno, l’ormone può così raggiungere le cellule dell’organismo, legarsi ad un apposito recettore, che si trova sulle loro membrane, e attivare una serie di eventi a catena che culminano con l’apertura di un particolare “canale” di membrana attraverso cui il glucosio può entrare ed essere utilizzato come fonte di energia dalle cellule. Questo comporta un abbassamento del quantitativo di glucosio circolante.

In condizioni di diabete, dovuto all’incapacità delle cellule beta del pancreas di produrre sufficienti quantità di insulina, o ad un alterato funzionamento di questo ormone, a cui gli organi bersaglio non riescono a rispondere adeguatamente, l’organismo non può utilizzare il glucosio circolante che, di conseguenza, da un lato si accumula nel sangue (iperglicemia) e dall’altro viene in parte eliminato attraverso le urine (glicosuria).

Alla condizione di iperglicemia si associano numerose complicanze sia acute che croniche.

Complicanze acute

Generalmente, le complicanze acute del diabete, causate repentinamente dall’assenza o dalla forte carenza di insulina, si distinguono in chetoacidosi e coma iperosmolare non chetosico.

  • Chetoacidosi
    La chetoacidosi diabetica è una complicanza, potenzialmente letale, che caratterizza più spesso il diabete di tipo 1. La carenza/assenza di insulina nell’organismo non permette alle cellule di utilizzare il glucosio come fonte di energia. L’organismo è, quindi, costretto ad usare i lipidi, producendo anche corpi chetonici che vengono poi eliminati con le urine. Quando i corpi chetonici raggiungono concentrazioni eccessive, determinano la cosiddetta chetoacidosi diabetica.

    I primi sintomi di questa condizione sono: anoressia, nausea, vomito e dolori addominali. Se non curata adeguatamente e prontamente, la chetoacidosi può progredire fino ad indurre il coma chetoacidosico, una grave condizione medica, che può portare alla morte del soggetto.

  • Coma iperosmolare non chetosico
    Anche il coma iperosmolare non chetosico è una condizione potenzialmente letale, ed è generalmente associato a quei casi di diabete di tipo 2 contraddistinti da una prolungata e grave iperglicemia. Il coma iperosmolare non chetosico si presenta, più spesso, nei pazienti anziani che tendono ad assumere meno liquidi, rispetto ai più giovani.

    Ciò esacerba fortemente sia la condizione di iperglicemia che di disidratazione dell’organismo e delle cellule, già in atto a causa delle perdite idriche dovute all’aumentata diuresi.

    I sintomi consistono in convulsioni, deficit motori, tremori, flaccidità muscolare, stato confusionale a cui segue il coma. Il coma iperosmolare non chetosico differisce da quello chetosico per l’assenza di corpi chetonici; in questo caso, infatti, la carenza di insulina, sebbene grave, non è assoluta come nel diabete di tipo 1, perciò l’organismo non è costretto ad utilizzare i lipidi come fonte energetica.

Complicanze croniche

Dopo 10-15 anni dall’esordio della malattia, si manifestano solitamente delle complicanze croniche prevalentemente di natura vascolare che, se trascurate, possono avere effetti letali. È ormai noto da tempo, infatti, che elevati livelli di glucosio circolante provocano danni vascolari attraverso l’attivazione di numerosi meccanismi. In primis, si osserva un aumento dello stress ossidativo, che a sua volta porta ad un incremento dello stato infiammatorio, alla stimolazione di una condizione pro-trombotica e alla tendenza all’occlusione vascolare. Se i valori glicemici non vengono riportati a livelli fisiologici, queste problematiche si esacerbano e ne determinano altre, culminando in patologie serie, come quelle a seguire.

  • Macroangiopatia diabetica
    La macroangiopatia diabetica è un’alterazione dei grossi vasi sanguigni, che tende a sviluppare aterosclerosi, importante fattore di rischio di numerose malattie cardiovascolari (coronaropatie, ictus, angina pectoris, infarto del miocardio e arteriopatia periferica).
  • Microangiopatia diabetica
    La microangiopatia diabetica è un’alterazione dei vasi capillari, che ha conseguenze serie a livello dei reni (nefropatia diabetica), della retina (retinopatia diabetica) e del sistema nervoso centrale e periferico (neuropatia diabetica).
  • Ulcera diabetica
    Conseguenza delle precedenti complicanze, l’ulcera diabetica determina difficoltà nel cicatrizzare le lesioni, un esempio noto è il “piede diabetico”. In questo caso la neuropatia diabetica può provocare insensibilità o difficoltà a percepire dolore e cambiamenti di temperatura a livello delle estremità inferiori. Ciò può portare il paziente a non accorgersi della presenza di eventuali ferite a carico del piede. Se a questo si aggiunge la cattiva circolazione a livello degli arti inferiori (arteriopatia periferica), una piccola ferita rischia di produrre seri danni, come ulcere sanguinanti che, se non adeguatamente curate, nel tempo possono portare addirittura a cancrena.

Prediabete

Con il termine “prediabete” ci si riferisce ad una condizione che spesso precede l’insorgenza del diabete di tipo 2, in cui i livelli di glucosio nel sangue sono superiori alla norma (valori a digiuno compresi tra 70 e 100 mg/dl), ma non così elevati da corrispondere ad un diabete conclamato. Questa condizione, spesso asintomatica, si associa frequentemente a sovrappeso e obesità (in particolare viscerale), elevati livelli di trigliceridi, colesterolo totale e cattivo (LDL), bassi valori di colesterolo buono (HDL) e ipertensione.

Oltre ad evolvere spesso in diabete conclamato, anche lo stato di prediabete predispone all’insorgenza di complicanze micro- e macro-vascolari, aumentando il rischio di sviluppare numerose malattie cardiovascolari (tra cui aterosclerosi e cardiopatia ischemica).

In questa fase, tuttavia, intervenire esclusivamente con una modifica degli stili di vita (corretta alimentazione, seguendo il modello della dieta mediterranea, eventuale dieta ipocalorica - se necessaria una perdita di peso -, interruzione dell’abitudine al fumo e pratica di una regolare attività fisica) è spesso sufficiente a migliorare i valori di glicemia e diminuire i fattori di rischio cardiovascolare. In soggetti a rischio molto elevato di sviluppare diabete di tipo 2 può venire talvolta anche associata una terapia farmacologica con metformina (farmaco orale anti-diabetico normalmente utilizzato nella cura del diabete di tipo 2 - vedere il paragrafo “Diabete: terapia farmacologica”).

Secondo l’American Diabetes Association (ADA) e l’OMS, esistono due tipi di prediabete: l’alterata glicemia a digiuno (Impaired Fasting Glucose, IGF) e l’alterata tolleranza al glucosio (Impaired Glucose Tolerance, IGT).

Per definizione, si può parlare di IGF quando, dopo almeno 8 ore di digiuno, i livelli di glucosio nel sangue oscillano tra i 100 e i 125 mg/dl.

Per definizione, si può parlare di IGT quando la glicemia, dopo due ore dal test da carico orale di glucosio (OGTT)*, oscilla tra 140 e 199 mg/dl. In presenza di IGT può succedere che i livelli glicemici a digiuno siano normali o solo leggermente aumentati.

* Questo esame consente di misurare la capacità delle cellule di utilizzare il glucosio prelevandolo dal sangue. Viene svolto al mattino a digiuno: si esegue innanzitutto un primo prelievo (basale), poi, se il valore rilevato è inferiore ai 126 mg/dl, si fanno assumere al paziente 75 g di glucosio disciolti in 250-300 ml d’acqua. Nelle ore successive, la glicemia viene misurata ad intervalli di tempo regolari, ovvero dopo  60 e 120 minuti dall’ingestione del bolo di glucosio.

Per maggiori dettagli sulla prevenzione e la gestione del prediabete, leggere il paragrafo “Diabete: l’importanza dello stile di vita nella prevenzione e gestione della malattia”.

Diabete di tipo 1, tipo 2, gestazionale e altre tipologie

Per definizione, secondo gli ultimi criteri proposti dagli esperti dell’ADA, una persona può essere definita diabetica qualora presenti una delle seguenti condizioni.

  • La glicemia a digiuno è ≥ a 126 mg/dl (in condizioni fisiologiche dovrebbe essere compresa tra 70 e 100 mg/dl).
  • La concentrazione dell’emoglobina glicata HbA1c* è ≥ 6,5% (48 mmol/ml).
  • La glicemia dopo 2 ore dal test OGTT è ≥ a 200 mg/dl.
  • La glicemia è ≥ a 200 mg/dl in qualsiasi momento della giornata.

* Parte del glucosio che circola nel sangue si lega spontaneamente all'emoglobina A, creando la cosiddetta “emoglobina glicata”, la cui forma prevalente è stata definita HbA1c. Più alta è la concentrazione di glucosio nel sangue, più emoglobina glicata sarà presente. Per questo, secondo l’ADA, il test che misura la quantità di HbA1c circolante può essere usato per lo screening e/o la diagnosi di diabete.

Sebbene l’iperglicemia sia una caratteristica comune tra tutti coloro che soffrono di diabete mellito, questa patologia molto complessa viene classificata in quattro macro-categorie.

Un tempo chiamato diabete insulino-dipendente o diabete giovanile, il diabete di tipo 1 riguarda il 10% di tutti i casi ed insorge, in genere, a partire dall’infanzia o dall’adolescenza (raramente si osserva dopo i 40 anni).

Si tratta di una patologia cronica autoimmune o idiopatica (= senza una causa nota o dimostrabile) in cui il sistema immunitario, riconoscendo come estranee le cellule beta del pancreas, produce anticorpi (autoanticorpi) in grado di attaccarle e distruggerle. La velocità di questo processo è piuttosto variabile, in alcuni individui la malattia insorge rapidamente (di solito in bambini e adolescenti) ed in altri più lentamente (spesso negli adulti, in cui si parla di una forma rara di diabete detta LADA: Late Autoimmune Diabetes in Adults). L’ovvia conseguenza di questo processo è la progressiva incapacità da parte del pancreas di produrre insulina, determinando il rapido incremento dei livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e rendendo, quindi, necessaria l’iniezione quotidiana, a vita, di insulina esogena. Esistono diverse tipologie di insulina, utilizzabili da sole o in combinazione; la scelta della terapia più opportuna viene sempre intrapresa dal team diabetologico, che la adegua alle necessità specifiche di ogni paziente. Per maggiori dettagli sulla terapia insulinica, vedere il paragrafo “Diabete: terapia farmacologica”.

Anche se devono essere sempre individualizzati, generalmente gli obiettivi glicemici da raggiungere per i pazienti affetti da diabete di tipo 1 sono i seguenti.

  • Emoglobina glicata HbA1c < 48 mmol/mol (6,5%), nei soggetti senza complicanze.
  • Emoglobina glicata HbA1c < 53 mmol/mol (7,0%), nei soggetti con complicanze.
  • Glicemia a digiuno tra 80-130 mg/dl.
  • Glicemia post-prandiale (1-2 ore dopo i pasti) < 160 mg/dl.

Le cause del diabete di tipo 1 sono ancora sconosciute, tuttavia si ipotizza che venga scatenato da un insieme di fattori genetici e ambientali (tra cui l’infezione ad opera di alcuni tipi di virus). Gli scienziati ritengono, infatti, che alla base di questa patologia sussista una predisposizione genetica (non necessariamente ereditaria).

I sintomi che si presentano più spesso sono: urine abbondanti e frequenti, sete e fame eccessive, dimagrimento improvviso e immotivato.

Questa forma di diabete non può essere in alcun modo prevenuta.

Per ulteriori informazioni sulla gestione di alimentazione e attività sportiva e per conoscere l’effetto del fumo negli individui affetti da diabete di tipo 1, leggere il paragrafo “Diabete: l’importanza dello stile di vita nella prevenzione e gestione della malattia”.

Il diabete di tipo 2 rappresenta la forma più diffusa, interessando il 90% di tutti i casi. Si sviluppa nell’arco di molto tempo (spesso senza grossi sintomi iniziali e, quindi, non venendo prontamente diagnosticato), è più frequente dopo i 40 anni e colpisce principalmente le persone in sovrappeso e/o obese.

L’origine di questa tipologia di diabete dipende, generalmente, da due alterazioni, che possono presentarsi separatamente e/o successivamente, oppure coesistere.

  • Insulino-resistenza: l’insulina non riesce ad agire in maniera soddisfacente, in quanto le cellule degli organi bersaglio (muscolo, fegato, tessuto adiposo) non le rispondono Il glucosio, di conseguenza, non riuscendo ad entrare nelle cellule, si accumula nel sangue.
  • Deficit di secrezione di insulina: progressivo e inesorabile declino della capacità, propria delle cellule beta del pancreas, di produrre insulina.

Il risultato, in entrambi i casi, è l’incremento dei livelli di glucosio nel sangue, ovvero l’iperglicemia.

Di solito, questa patologia inizia quando i tessuti non riescono più a rispondere adeguatamente all’insulina. L’insulino-resistenza iniziale genera, quindi, una maggiore richiesta da parte dell’organismo di questo ormone, al fine di richiamare il glucosio nelle cellule. Con il passare del tempo, però, questa iperfunzione del pancreas ne determina un progressivo esaurimento funzionale, che lo porta a produrre sempre meno insulina. In questo contesto, non solo si viene a creare un incremento della glicemia, ma la funzionalità pancreatica continua a peggiorare, accelerando e complicando inesorabilmente lo stato iperglicemico.

Sovente, il diabete di tipo 2 non viene rilevato per molti anni: l’iperglicemia, infatti, si sviluppa gradualmente e non comporta inizialmente sintomi particolarmente evidenti, a differenza del diabete di tipo 1. Sfortunatamente quindi, a meno che i pazienti non lo scoprano a seguito di esami del sangue fatti per altri motivi, si può arrivare alla diagnosi di diabete di tipo 2, quando sintomi più seri di natura vascolare, causati dall’iperglicemia incontrollata, iniziano a presentarsi. Le cause alla base dell’insorgenza del diabete di tipo 2 sono sia ereditarie che ambientali. Sebbene i fattori di trasmissione ereditari non siano ancora completamente noti, alcune popolazioni tendono ad esserne più affette (orientali, ispanici, afroamericani, individui originari dell’Asia del sud e dell’Africa subsahariana) e in alcune famiglie si osserva una predisposizione allo sviluppo del diabete di tipo 2.

Tra i fattori ambientali che maggiormente incidono sullo sviluppo di questa forma di diabete, ci sono i seguenti.

  • Sovrappeso e obesità: causano spesso un eccesso di trigliceridi circolanti, che tendono ad accumularsi anche nelle cellule pancreatiche, contribuendo ad alterarne la funzionalità. Il grasso localizzato a livello viscerale, inoltre, secerne particolari ormoni e citochine infiammatorie che non solo contribuiscono a diminuire la sensibilità degli organi all’insulina, ma hanno un ruolo negativo anche sulle cellule beta.
  • Sedentarietà: l’inerzia dei muscoli aumenta l’insulino-resistenza, al contrario l’esercizio fisico migliora sia la sensibilità all’insulina che l’attività del pancreas.
  • Età avanzata: le modificazioni fisiologiche che si presentano con l'invecchiamento dell’organismo comprendono la diminuzione della secrezione di insulina, una maggiore insulino-resistenza, l’aumento di peso o l’incremento della massa grassa a sfavore della magra. Infine, la diminuzione dell’attività fisica, la coesistenza di più patologie e conseguente utilizzo di vari farmaci, rendono gli anziani più vulnerabili allo sviluppo del diabete.
  • Diete sbilanciate particolarmente ricche in zuccheri semplici: in soggetti predisposti, la continua richiesta di insulina, determinata da questa tipologia di dieta, fa emergere più rapidamente le difficoltà funzionali delle cellule beta già “geneticamente alterate”.
  • Precedente diagnosi di diabete gestazionale.
  • Ipertensione.
  • Bassi livelli di colesterolo buono HDL.
  • Valori di trigliceridi elevati (≥ a 250 mg/ml).

Dato il ruolo rilevante svolto dai fattori ambientali nell’incrementare il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, la prima azione terapeutica è solitamente volta al miglioramento dello stile di vita, impostando un’alimentazione sana, secondo il modello mediterraneo, effettuando una dieta ipocalorica - quando necessaria una perdita di peso -, interrompendo l’eventuale abitudine al fumo e introducendo e/o implementando il livello di attività fisica. Nei casi in cui questo non fosse sufficiente, alle modifiche dello stile di vita viene associata la terapia farmacologica, stabilita dal medico diabetologo. Attualmente, esiste un’ampia scelta di farmaci, che possono venir somministrati da soli o in combinazione, a seconda delle esigenze del paziente. Quando i farmaci anti-diabetici orali, che agiscono aumentando la secrezione di insulina, non sono sufficienti a controllare la glicemia, oppure sono mal tollerati o controindicati, le iniezioni di insulina esogena possono essere aggiunte al trattamento. Per maggiori dettagli sulla terapia insulinica, vedere il paragrafo “Diabete: terapia farmacologica”.

Anche se devono essere sempre individualizzati, generalmente gli obiettivi glicemici da raggiungere per i pazienti affetti dal diabete di tipo 2 sono i seguenti.

  • Emoglobina glicata HbA1c tra 48-58 mmol/mol (6,5%).
  • Emoglobina glicata HbA1c < 48 mmol/mol (tra 6,5 e 7,5%), quando si utilizzano farmaci ipoglicemizzanti (sia orali che insuline).
  • Glicemia a digiuno tra 80-130 mg/dl.
  • Glicemia post-prandiale (1-2 ore dopo i pasti) < 160 mg/dl.

Tra i sintomi tipici del diabete di tipo 2 troviamo: sensazione di stanchezza, frequente bisogno di urinare, sete inusuale, perdita di peso immotivata, aumento dell’appetito, visione offuscata, lenta guarigione delle ferite, facilità a sviluppare infezioni, prurito cutaneo e cefalea.

Per ulteriori informazioni sulla gestione di alimentazione e attività sportiva e per conoscere l’effetto di sovrappeso/obesità e fumo negli individui affetti da diabete di tipo 2, leggere il paragrafo “Diabete: l’importanza dello stile di vita nella prevenzione e gestione della malattia”.

Il diabete gestazionale è un disordine della regolazione della glicemia, di entità variabile, che inizia o viene diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza (di solito tra il secondo e il terzo trimestre) e, nella maggior parte dei casi, regredisce dopo il parto. Tuttavia, le donne a cui viene diagnosticato una prima volta, rischiano di svilupparlo nuovamente nelle gravidanze successive e che si presenti, a distanza di anni, sotto forma di diabete di tipo 2.

Una piccola parte delle pazienti con diabete gestazionale presenta caratteristiche tipiche del diabete autoimmune (sia di tipo 1 sia LADA), in questi casi circa la metà di loro svilupperà un diabete autoimmune pochi anni dopo la gravidanza.

Il diabete gestazionale si verifica circa nel 6-7% delle gravidanze e, se non controllato, aumenta il rischio di complicanze sia durante la gravidanza che al momento del parto. L’iperglicemia nella madre, inoltre, incrementa la probabilità di morbilità e mortalità fetale (malformazioni fetali e/o morte intrauterina). Infine, bambini nati da una madre affetta da diabete gestazionale hanno un rischio aumentato di sviluppare: obesità (> 50% in età preadolescenziale), alterata tolleranza al glucosio e insulino-resistenza in età adolescenziale, alterata tolleranza al glucosio e diabete di tipo 2 in età adulta.

I cambiamenti ormonali che si verificano in gravidanza rendono i tessuti meno sensibili all’insulina endogena, aumentando il rischio di iperglicemia. Inoltre, esistono delle condizioni che predispongono allo sviluppo di questa patologia e, per questo, vengono identificate come fattori di rischio.

  • Obesità o sovrappeso pregressi alla gravidanza.
  • Precedente diagnosi di diabete gestazionale.
  • Familiarità per diabete (genitori, fratelli etc.).
  • Precedenti figli con peso alla nascita > 4,5 kg.
  • Età > 35 anni.

Non esiste ancora un consenso su quali siano i criteri migliori da utilizzare per poter fare una diagnosi di diabete gestazionale. Tuttavia, il test più comunemente utilizzato è quello che quantifica la glicemia dopo due ore da un carico orale con 75 g di glucosio. Dopo aver misurato la glicemia a digiuno, viene fatta bere la soluzione zuccherina e i valori della glicemia vengono ricontrollati dopo 1 e 2 ore.

Sono definite affette da diabete gestazionale le donne i cui valori di glicemia corrispondono ai seguenti.

  • A digiuno: ≥ 92 mg/dl.
  • Dopo 1 ora: ≥ 180 mg/dl.
  • Dopo 2 ore: ≥ 153 mg/dl.

Nella maggior parte dei casi il diabete gestazionale può essere tenuto sotto controllo solo attraverso l’esercizio fisico e una sana alimentazione, secondo il modello mediterraneo, ma talvolta è necessario ricorrere alla terapia farmacologica a base di iniezioni di insulina. Ad oggi, infatti, non esistono ancora abbastanza studi a lungo termine che assicurino la sicurezza dei farmaci orali anti-diabetici sul feto. Per maggiori dettagli sulla terapia insulinica, vedere il paragrafo “Diabete: terapia farmacologica”.

Gli obiettivi glicemici da raggiungere per le pazienti affette da diabete gestazionale sono i seguenti.

  • A digiuno £ 90 mg/dl.
  • 1 ora dopo il pasto £ 130 mg/dl.
  • 2 ore dopo il pasto £ 120 mg/dl.

La sintomatologia di questa tipologia di diabete è sovente assente. Raramente, si possono osservare aumento della sete e della necessità di urinare, nausea e infezioni urinarie.

Pur non esistendo propriamente un modo per prevenire l’insorgenza del diabete gestazionale, è possibile intraprendere alcune azioni che permettono di contenerne il rischio.

  • Prima della gravidanza, se si è in sovrappeso, si consiglia di modificare lo stile di vita seguendo una dieta sana, secondo il modello mediterraneo e introducendo e/o implementando l’attività fisica.
  • Durante la gravidanza si dovrebbe evitare di aumentare troppo di peso, adottando una dieta dall’adeguato apporto calorico, che segua il modello del piatto sano, e svolgendo un’attività fisica opportuna per questa fase fisiologica.

Sia per la dieta che per l’attività fisica è totalmente sconsigliato il “fai da te”: ginecologo, specialista della nutrizione e dell’esercizio fisico sapranno dare i consigli più adatti.

Per ulteriori informazioni sulla gestione di alimentazione e attività sportiva e per conoscere l’effetto di sovrappeso/obesità e fumo nelle donne affette da diabete gestazionale, leggere il paragrafo “Diabete: l’importanza dello stile di vita nella prevenzione e gestione della malattia”.

Oltre a quelle descritte, esistono anche altre tipologie di diabete con prevalenze nettamente inferiori, rispetto ai precedenti.

  • Diabete monogenico (come il diabete neonatale e il Maturity-Onset Diabetes of the Young, MODY): causato da una mutazione genetica che va a compromettere lo sviluppo o la funzionalità della cellula beta pancreatica, con conseguente alterazione della secrezione di insulina.
  • Diabete secondario ad altre patologie (pancreatiti, fibrosi cistica etc.) o indotto da farmaci o sostanze chimiche (utilizzo di glucocorticoidi/altri ormoni steroidei impiegati, per esempio, per trattare HIV/AIDS o a seguito di un trapianto di organi) o conseguente ad una resezione chirurgica del pancreas.

Diabete: terapia farmacologica

Come accennato nel paragrafo precedente, la scelta della terapia farmacologica da impiegare nella cura di questa patologia varia in base alla forma di diabete mellito presa in esame.

Nel caso di diabete di tipo 2, gestazionale e, se necessario, prediabete può venire affiancata agli interventi sullo stile di vita, se questi da soli non sono sufficienti a normalizzare la glicemia; è invece imprescindibile per il diabete di tipo 1.

Prima di vedere in maggiore dettaglio le tipologie di farmaci esistenti per la gestione del diabete mellito, è importante ricordare che una componente indispensabile nella cura di questa malattia è rappresentata dall’autocontrollo della glicemia, che deve essere condiviso con il team diabetologico.

L'autocontrollo della glicemia consente al paziente sia di raggiungere gli obiettivi terapeutici stabiliti, sia di ridurre il rischio di andare incontro a gravi ipoglicemie. Infatti, conoscendo i valori glicemici del proprio paziente, il medico può stabilire quelli che dovrà raggiungere e mantenere oltre che fornire, nel tempo, le giuste indicazioni/correzioni per proseguire la terapia. Infine, essere in grado di autocontrollare la glicemia è fondamentale per la persona affetta da diabete, per poter adeguare, se necessario, la propria alimentazione e l’attività fisica alla terapia farmacologica, identificare e trattare eventuali urgenze, prevenire e gestire efficacemente le situazioni a rischio. Questo controllo è particolarmente cruciale per i diabetici di tipo 1 che, secondo l’ADA, dovrebbero eseguirlo (i) sistematicamente prima di pasti e spuntini; (ii) occasionalmente dopo i pasti principali, prima di andare a letto e prima dell’attività fisica; (iii) sempre in caso di sospetta ipoglicemia, dopo la correzione della stessa e prima di guidare.

I farmaci a disposizione per la cura del diabete mellito sono molti, se ne possono utilizzare di una sola tipologia o varie combinazioni, in base alle esigenze di ogni paziente, e si dividono in tre categorie.

I farmaci orali anti-diabetici usati per il trattamento del diabete di tipo 2 e, se necessario, del prediabete, appartengono a diverse classi.

  • Glitazoni (o tiazolidinedioni).
  • Inibitori dell’enzima DPP-4.
  • Inibitori delle alfa-glucosidasi intestinali.
  • Inibitori del trasportatore renale del glucosio SGLT-2. 

Sebbene impieghino differenti meccanismi, tutte queste sostanze abbassano la glicemia aumentando la secrezione di insulina, riducendo l’insulino-resistenza, rallentando l’assorbimento intestinale di glucosio e incrementandone l’escrezione renale.

Diabete di tipo 2

Il farmaco di prima scelta per il trattamento del diabete di tipo 2, quando non gestibile solo con gli interventi sullo stile di vita, è la Metformina, che appartiene alla classe dei Biguanidi.

Generalmente gli anti-diabetici si assumono prima dei pasti, da 1 a 3 volte al giorno, a seconda della durata d’azione e delle necessità del paziente. Quando i livelli di glicemia non riescono ad essere normalizzati con un unico farmaco orale, se ne possono usare combinazioni di 2-4, ad azione complementare. Se nemmeno multiple tipologie di anti-diabetici orali consentono di raggiungere gli obiettivi terapeutici, ad essi si può associare l’insulina.

Nei casi di diabete di tipo 2 in cui la terapia a base di insulina permetta il raggiungimento di valori glicemici accettabili, va sempre vagliata la possibilità di sospenderla per cercare di continuare a tenere sotto controllo la malattia con farmaci orali anti-glicemici e interventi sullo stile di vita.

Prediabete

Attualmente, non è ancora stato approvato l’uso di alcun farmaco per trattare il prediabete e/o prevenire il diabete di tipo 2. Infatti, sebbene ad alcuni soggetti, a rischio molto elevato di sviluppare diabete di tipo 2, siano stati somministrati Metformina, glitazonici e farmaci in grado di ridurre iperglicemia e peso corporeo, si è osservato che i risultati migliori, in termini di controllo della glicemia e diminuzione del rischio di complicanze, si ottengono sempre con la sola modifica degli stili di vita.

La somministrazione di insulina rimpiazza la carenza di ormone che è assoluta, in caso di diabete di tipo 1 e relativa, in caso di diabete di tipo 2 o gestazionale.

Le insuline, a seconda della loro velocità e durata di azione, vengono generalmente classificate come segue.

  • Rapidissime/ultrarapide (Lispro, Aspart, Glulisina): entrano in azione dopo 10-15 minuti dall’iniezione e raggiungono il massimo effetto ipoglicemizzante (picco) in 30 minuti Hanno una durata d’azione di 3-5 ore. Tipicamente, questa tipologia di insulina serve per porre rimedio ad una variazione inaspettata di glicemia.
  • Rapide (umana regolare): agiscono in circa 30 minuti, raggiungono il loro picco dopo 2-4 ore e continuano ad agire per altre 6-8 ore.
  • Intermedie (NPH): iniziano ad agire dopo circa 90 minuti, raggiungono il picco dopo almeno 4 ore e continuano la loro durata per 16 ore.
  • A lunga durata/basali/lente (Glargine, Detemir, Lisproprotamina, Degludec): vengono iniettate 1 o 2 volte al giorno e durano fino a 24 ore.

Sul mercato esistono anche i “microinfusori” di insulina, dispositivi elettro-meccanici compatti (grossi all’incirca come un MP3) che consentono l’infusione di insulina ad azione rapida nel tessuto sottocutaneo addominale secondo due modalità: “continua” - infusione basale - e “a richiesta” - boli insulinici. Questi strumenti si agganciano alla cintura, o si possono mettere in tasca, sono dotati di un computer programmabile, un motore di precisione, un pistone e un serbatoio che contiene insulina; quest’ultimo è collegato al corpo tramite una sorta di catetere-cannula. Il microinfusore, perciò, mima la funzione del pancreas, rilasciando insulina giorno e notte con modalità programmate da un team diabetologico esperto, a seconda delle esigenze del singolo paziente. Tale strumento consente di vivere con più libertà e serenità con la malattia e si mostra particolarmente utile nelle ore notturne, nella gestione dei picchi di ipoglicemia e nei casi di diabete instabile.

Negli ultimi anni, l’indicazione all’utilizzo del microinfusore si è estesa, oltre ai soggetti di qualsiasi età che soffrono di diabete di tipo 1, anche a chi è affetto da diabete di tipo 2 e utilizza da tempo una terapia insulinica intensiva e/o che faccia fatica a raggiungere un buon controllo glicemico con le terapie multi-iniettive.

Diabete di tipo 1

La terapia insulinica va considerata un “salva-vita” nel soggetto con diabete di tipo 1 che, quindi, non deve mai sospenderla, neppure se non si alimenta. In quest’ultimo caso, la dose potrà essere eventualmente ridotta, ma per nessun motivo un paziente affetto da diabete di tipo 1 può astenersi dall’iniezione di insulina, a meno che non si tratti solo di poche ore.

Solitamente, nel trattamento di questa tipologia di diabete, vengono utilizzate più tipologie di insulina, integrando quella lenta con l’ultrarapida o la rapida. Questo consente sia il controllo generale della glicemia a digiuno (insulina basale), sia l’aumento fisiologico dovuto all’assunzione di cibo (insulina ultrarapida o rapida che si inietta prima dei pasti - bolo prandiale). Uno schema terapeutico molto comunemente utilizzato da questi pazienti, in quanto indicato dalle linee guida correnti come quello più appropriato per la terapia insulinica multi-iniettiva è il cosiddetto “basal bolus”, che prevede la somministrazione di insulina rapida ai pasti più una o due somministrazioni giornaliere di insulina basale.

Diabete di tipo 2

La terapia insulinica è talora indispensabile anche nei casi di diabete tipo 2 in cui la glicemia non si riesca a controllare con i farmaci orali anti-glicemici. A volte la si impiega solo temporaneamente, anche al momento della diagnosi, o in caso di traumi, operazioni chirurgiche, malattie concomitanti, altre volte in via definitiva. Di norma questo succede quando la malattia è in corso da molti anni, le cellule beta si sono molto ridotte e, di conseguenza, la sola terapia orale non riesce più a gestire adeguatamente i valori glicemici. Talvolta, invece, è necessario ricorrere all’insulina perché i farmaci orali sono controindicati (in caso di insufficienza renale) o non tollerati. L’insulina, infatti, salvo casi rarissimi, non presenta controindicazioni e viene praticamente sempre ben tollerata.

Nella gestione del diabete di tipo 2 viene spesso scelta la terapia a base di insulina di tipo intermedio o a lunga durata, da iniettare una sola volta al giorno. Tuttavia, gli schemi terapeutici possono essere estremamente variabili e prevedere sia l’impiego di insuline rapide prandiali (bolo prandiale) sia quello dei microinfusori, in funzione delle esigenze di ogni paziente.

Diabete gestazionale

Qualora nelle donne con diabete gestazionale non si riescano a regolare i valori della glicemia esclusivamente con un’alimentazione sana e un’adeguata attività fisica, la terapia raccomandata deve essere a base di insulina. Non esistono, infatti, ancora abbastanza studi a lungo termine che garantiscano la sicurezza dei farmaci orali anti-diabetici per il feto.

Appena ricevuta la diagnosi di diabete gestazionale, deve essere attuato un regolare controllo glicemico; se con i soli interventi di modifica dello stile di vita non vengono raggiunti gli obiettivi glicemici stabiliti entro 2 settimane, la terapia insulinica deve essere iniziata prontamente. Tale terapia va sempre individualizzata: potrebbe essere rappresentata da un’unica iniezione serale di insulina lenta, oppure prevedere 2 iniezioni quotidiane o ancora un trattamento insulinico intensivo.

Oltre all’insulina esistono anche altre tipologie di farmaci iniettabili, i cosiddetti “analoghi di GLP-1”. GLP-1 “Glucagon-Like Peptide 1” è un ormone prodotto dall’intestino, che stimola la secrezione di insulina dopo i pasti, entrando in azione quando la glicemia sale per effetto dei carboidrati assunti con il cibo.

Per la terapia, si utilizzano degli analoghi di questa molecola definiti più correttamente “agonisti del recettore del GLP-1”. Questi farmaci si somministrano come l’insulina, ovvero con un’iniezione sottocutanea, alcuni una volta al giorno (Liraglutide, Lixisenatide), altri due (Exenatide), o anche una sola volta alla settimana (Exenatide a lunga durata d’azione, Dulaglutide). Alcuni analoghi di GLP-1 (Liraglutide e Lixisenatide) sono iniettabili in associazione con specifiche tipologie di insulina (Degludec e Glargine, rispettivamente) in proporzioni fisse.

Questo testo non descriverà ulteriormente né le tipologie di farmaci anti-diabetici in commercio né gli specifici trattamenti/combinazioni farmacologiche da impiegare nella cura dei vari tipi di diabete mellito; chi fosse interessato può trovare informazioni più approfondite sui siti a seguire.

Diabete: l’importanza dello stile di vita nella prevenzione e gestione della malattia

Il trattamento del diabete mellito, in quanto patologia metabolica cronica, non può non tenere in considerazione, oltre agli aspetti farmacologici, anche quelli legati allo stile di vita.

Nel caso di prediabete, diabete di tipo 2 e gestazionale, inoltre, interventi mirati esclusivamente ad interrompere l’abitudine al fumo, contrastare sovrappeso ed obesità, attraverso un’alimentazione sana e lo svolgimento di un’adeguata attività fisica, oltre a tenere sotto controllo e/o migliorare il decorso di queste malattie, possono anche prevenirle.

È stato calcolato, infatti, che nel caso del diabete di tipo 2, fino al 90% dei casi potrebbe essere prevenuto solo attraverso l’implementazione di programmi di prevenzione rivolti ai soggetti affetti da prediabete e/o a rischio di sviluppare la malattia.

Abitudine al fumo

Il fumo di sigaretta ha, per tutti, un effetto negativo sull’organismo ed è, in particolare, un noto fattore di rischio per le patologie polmonari, oncologiche e cardiovascolari. In chi soffre di diabete, quindi, il fumo può aggravare le complicanze cardiovascolari della malattia, danneggiando ulteriormente le pareti dei vasi e favorendo la formazione di placche aterosclerotiche. È stato stimato che, in un diabetico fumatore la probabilità di sviluppare queste complicanze raddoppia, rispetto ad uno che non fuma. Inoltre, i fumatori affetti da diabete presentano un rischio superiore di non rispondere adeguatamente alla terapia insulinica, riscontrando, perciò, difficoltà nel controllo dei valori glicemici, rispetto ai non fumatori.

Il fumo è un fattore di rischio per l’insorgenza di prediabete, in particolare, è correlato ad un’alterata glicemia a digiuno (IGF). I fumatori, infatti, hanno circa il 30% di rischio in più, rispetto ai non fumatori, di sviluppare il diabete di tipo 2. Inoltre, uno studio del 2022, effettuato su oltre 600 000 statunitensi, ha dimostrato che chi fuma sigarette elettroniche ha un rischio superiore di incorrere nel prediabete, rispetto a chi non usa né sigarette tradizionali né elettroniche.

Smettere di fumare (sigarette elettroniche incluse) è quindi imperativo per diminuire il rischio di sviluppare sia prediabete che diabete di tipo 2!

Un recente studio, svolto su un gruppo di oltre 1400 soggetti affetti da diabete di tipo 1, ha dimostrato che, oltre ad aumentare il rischio di complicanze vascolari, il fumo peggiora la risposta alla terapia insulinica.

Smettere di fumare (sigarette elettroniche incluse) è quindi imperativo per questa categoria di pazienti!

Il fumo rientra a pieno titolo tra i fattori di rischio per lo sviluppo dell’insulino-resistenza, da cui il diabete di tipo 2 spesso origina. Aumentando stress ossidativo e processi infiammatori, fumare contribuisce anche a compromettere la funzionalità delle cellule beta del pancreas.

È stato stimato che i fumatori abbiano circa il 30% in più di probabilità di sviluppare questo tipo di diabete, rispetto ai non fumatori.

Smettere di fumare (sigarette elettroniche incluse) è quindi imperativo, sia per diminuire il rischio di sviluppare questa patologia, sia per i pazienti affetti da diabete di tipo 2!

Fumare in gravidanza è notoriamente pericoloso, sia per la madre che per il feto, aumentando, tra le altre cose, il rischio di aborto spontaneo, parto prematuro, morbilità e mortalità perinatale e infantile.

Inoltre, numerosi studi hanno dimostrato che fumare durante la gravidanza aumenta fino al 50% il rischio di sviluppare diabete gestazionale.

Chi desidera intraprendere e portare a termine una gravidanza in modo sano, oltre a non fumare (sigarette elettroniche incluse) prima del concepimento, non deve farlo durante la gestazione!

Sovrappeso ed obesità

Il trattamento di sovrappeso ed obesità è cruciale in tutta la popolazione e, particolarmente, nei soggetti diabetici, in quanto esiste una correlazione tra Indice di Massa Corporea (IMC) e patologie correlate all’obesità, tra cui quelle cardiovascolari, i tumori e il diabete di tipo 2. Il calo ponderale è, quindi, sempre raccomandato ai pazienti prediabetici e diabetici in sovrappeso o obesi, ovvero con un IMC rispettivamente da 25 - 29,99 kg/m2 e ≥ 30 kg/m2. L’obiettivo principale è raggiungere il peso corretto solo con l’impiego di una dieta sana, se possibile seguendo il modello mediterraneo, una moderata restrizione calorica e un graduale incremento dell’attività fisica. Si è, infatti, osservato che già una riduzione del peso del 5-7% migliora la sensibilità insulinica, la pressione arteriosa, il profilo lipidico e riduce i valori alterati della glicemia.

Nella popolazione in sovrappeso affetta da prediabete è stato dimostrato che un calo ponderale del 7%, a 6 mesi, e del 5%, a 3 anni, si associa con una riduzione del 58% della possibilità di sviluppare in futuro diabete di tipo 2. Per raggiungere questo obiettivo, vengono raccomandate una regolare attività fisica (almeno 30-60 min al giorno per 5 volte a settimana) e una dieta sana, di tipo mediterraneo, moderatamente ipocalorica.

Anche se nei pazienti affetti da diabete di tipo 1 l’eccesso ponderale non rappresenta una causa della malattia, sovrappeso e/o obesità peggiorano lo stato metabolico anche di questi individui che possono diventare insulino-resistenti e rispondere, quindi, meno efficientemente alla terapia farmacologica. Inoltre, tali condizioni rappresentano grossi fattori di rischio per ipertensione, dislipidemia e malattie cardiovascolari, tutte possibili cause di morte nel diabetico. Anche in questo caso, dunque, il calo ponderale è raccomandato per migliorare il controllo glicemico, ridurre il fabbisogno d’insulina e il rischio di complicanze cardiovascolari. Per raggiungere il normopeso si consiglia d’incrementare l’attività fisica (almeno 30-60 min al giorno per 5 volte a settimana) e seguire una dieta sana, moderatamente ipocalorica, adeguando, in modo opportuno, la terapia insulinica. Si raccomanda, tuttavia, di non intraprendere alcuna modifica allo stile di vita senza prima essersi rivolti al proprio medico/team diabetologico, che sapranno indicare i professionisti più adatti con cui stabilire un piano nutrizionale e sportivo personalizzato.

Sovrappeso ed obesità hanno un legame estremamente forte con lo sviluppo del diabete di tipo 2, non sorprende, quindi, che la maggior parte dei pazienti affetti da questa forma di diabete sia sovrappeso o obesa. In questi individui la sensibilità insulinica è diminuita e si osserva un deterioramento globale del controllo della malattia. In particolare, un aumento della localizzazione del grasso a livello addominale (adiposità viscerale), si associa ad un incremento dell’insulino resistenza. La perdita di peso, perciò, rappresenta un aspetto cruciale nella gestione della terapia di questi pazienti; anche modeste perdite di peso, infatti, determinano una riduzione dei livelli di iperglicemia, grazie anche all’incremento della sensibilità all’insulina da parte delle cellule dell’organismo.

Il raggiungimento di un corretto peso corporeo consente, inoltre, di migliorare pericolosi fattori di rischio cardiovascolare (come dislipidemia e ipertensione arteriosa), che aumentano la probabilità di complicanze, e di ridurre l’assunzione di farmaci ipoglicemizzanti.

L’approccio principale per ottenere e mantenere il calo ponderale è volto a modificare lo stile di vita, incrementando il dispendio energetico con un’opportuna attività fisica (almeno 30-60 min al giorno per 5 volte a settimana) e migliorando la qualità della dieta (scoraggiando in particolare il consumo di alimenti ricchi in grassi saturi, trans e zuccheri semplici) che dovrebbe essere di stampo mediterraneo e prevedere (fino al raggiungimento del peso prestabilito) una modesta restrizione calorica.

In gravidanza è sempre raccomandata un’adeguata introduzione energetica, che possa garantire un appropriato aumento di peso; quindi in questo periodo delicato un calo ponderale non viene raccomandato. Tuttavia, a donne sovrappeso o obese con diabete gestazionale può essere suggerita una modesta restrizione calorica e glucidica. Lo svolgimento di esercizi fisici opportuni può, inoltre, aiutare a non guadagnare ulteriore peso e migliorare la sensibilità all’insulina. Essendo il diabete gestazionale un fattore di rischio per lo sviluppo di quello di tipo 2, dopo il parto devono essere raccomandate modificazioni allo stile di vita finalizzate al calo ponderale nel medio-lungo termine (dieta sana di stampo mediterraneo, moderata restrizione calorica e aumento dell’attività fisica - almeno 30-60 min al giorno per 5 volte a settimana).

Alimentazione

Numerose evidenze scientifiche continuano a dimostrare come l’alimentazione sia cruciale per raggiungere e mantenere un buono stato di salute, prevenendo, controllando l’insorgenza e anche gestendo la cura di molte patologie croniche, tra cui il diabete mellito.

Per comprendere meglio l’impatto dell’alimentazione su glicemia e insulinemia è importante avere chiaro il significato di tre parametri: “indice glicemico”, “carico glicemico” e “indice insulinico o insulinemico”.

L’indice glicemico descrive la qualità dei carboidrati (CHO) contenuti negli alimenti. Indica la capacità di un determinato alimento di innalzare la glicemia, rispetto ad un riferimento standard, come per esempio il glucosio. Ai cibi viene assegnato un valore che va da 1 a 100, più è alto il numero, più rapidamente l’alimento è digerito ed assorbito e più rapidamente innalza la glicemia. Al contrario, più basso è il valore di IG più gli incrementi risultano bassi e tardivi. L’IG di un alimento viene definito basso quando < 50, 51 < medio < 69, alto > 70. Per definizione, il glucosio ha un IG di 100.

Tuttavia, tenere in considerazione solo l’IG non basta, infatti, la risposta glicemica ad un cibo è influenzata anche dalla quantità di carboidrati in esso contenuti, non solo dalla loro qualità. Per questo va considerato un altro importante parametro: il carico glicemico (CG) degli alimenti.

Il carico glicemico si calcola moltiplicando l’IG dell’alimento per i grammi di carboidrati contenuti nella porzione considerata e poi dividendo per 100. Se, quindi, due cibi hanno un IG simile, ma un contenuto di CHO molto diverso, il CG sarà molto differente e avrà un diverso impatto sulla glicemia. Per esempio, sebbene l’IG del melone sia superiore a quello degli spaghetti, il suo CG è circa la metà.

IG melone = 65, CHO in 150 g = 11 g

IG spaghetti = 58, CHO in 80 g = 66

CG melone = IG (65) x g CHO (11)/100= 7,15

CG spaghetti = IG (58) x g CHO (66)/100 = 38,28

La somma dei singoli valori di CG delle porzioni di alimenti consumati nei pasti può essere utilizzata per stimare il CG complessivo della dieta.

Comunque, la risposta glicemica complessiva di un pasto/giornata dipende anche da altri fattori, quali (i) la risposta individuale; (ii) la presenza di altri componenti nel pasto, tra cui la fibra; (iii) la tipologia di cottura utilizzata; (iv) la temperatura di consumo; (v) lo stato di maturazione degli alimenti; (vi) fare o meno la prima colazione.

Tuttavia, si è scoperto che il rilascio di insulina nel sangue (insulinemia), dopo un pasto, non è sempre proporzionale alla risposta glicemica; infatti, altre componenti sono in grado di stimolarne produzione e aumento di secrezione. L’indice che misura l’impatto diretto di un cibo sull’insulinemia e NON sulla glicemia si chiama Indice Insulinico o Insulinemico (II).

L’ Indice Insulinico o Insulinemico è un parametro che misura l’impatto di un alimento, dopo 2 ore dalla sua ingestione, sull’aumento dell’insulinemia. I cibi ad alto II la fanno aumentare notevolmente, quelli a basso II non la influenzano in modo significativo. L’II definisce, quindi, il differente potere insulinogenico di diversi alimenti, a parità di contenuto calorico (pari a 239 kcal, equivalenti a 1000 kj). Esempi: 239 kcal di pasta integrale hanno un II = 40 ± 5; 239 kcal di carne hanno un II = 51 ± 16.

Per la maggior parte degli alimenti esiste un’elevata correlazione tra II ed IG, se uno è alto lo è anche l’altro e viceversa. Tuttavia, a questa regola si sottraggono i cibi ricchi di proteine (come carne, pesce, latte e derivati) e i prodotti di pasticceria (contenenti carboidrati raffinati ma anche grassi), che inducono una risposta insulinemica superiore all’atteso. Infatti, sebbene i carboidrati siano i macronutrienti maggiormente responsabili dell’andamento glicemico post-prandiale e impattino per il 90-100% sulla secrezione d’insulina, le proteine lo fanno per il 50% e i grassi per il 10%. Perciò, un pasto che includa oltre ad alimenti ricchi di CHO anche proteine e grassi aumenterà la secrezione di insulina molto più di quanto sarebbe accaduto se si fosse mangiato solamente l’alimento ricco di CHO. Quindi ad oggi, oltre a poter confrontare i CG di pasti misti, dal simile valore calorico, grazie all’II è possibile paragonarne anche gli effetti sul rilascio di insulina.

Conoscere le ripercussioni dei cibi anche sull’insulinemia è importante da considerare per la gestione e la prevenzione di prediabete, diabete di tipo 2 e gestazionale. Infatti, quando la malattia non è ancora conclamata o troppo grave, l’aumentata domanda di insulina potrebbe contribuire al progressivo esaurimento funzionale delle cellule beta. Fino a quando gli studi sull’indice insulinico non verranno completati e i meccanismi biochimici alla base chiariti meglio, esso può essere usato per integrare le informazioni basate su IG e GC, in particolare per alcuni alimenti, e per come dovrebbero essere associati nei pasti.

Alla luce di queste informazioni, risulta sempre più anacronistico valutare i cibi solo in relazione al loro IG, oltre a tenere in considerazione il CG è, infatti, importante prestare attenzione anche all’II del pasto e/o dell’intera giornata. Un pasto misto completo e bilanciato (secondo la regola del piatto smart) resta comunque una valida scelta, nel contesto della prevenzione di prediabete, diabete di tipo 2 e gestazionale, in quanto prevede, tra le altre cose, un consumo elevato di verdure, ortaggi e alimenti ricchi in fibra, capaci di saziare e migliorare anche la risposta insulinica.

Sia in caso di prediabete che nella terapia del diabete l’alimentazione rappresenta un cardine fondamentale. Per questo motivo, invece di parlare di “dieta” si parla di Terapia Medica Nutrizionale (TMN) che viene vista come una componente critica nella prevenzione e nella gestione della malattia, oltre che nell’educazione nutrizionale del paziente.

La terapia nutrizionale deve sempre essere individualizzata, preferibilmente da un professionista della nutrizione inserito in un team diabetologico, sulla base del tipo di diabete, del trattamento farmacologico, dell’età del paziente, del suo livello di attività fisica e dell’eventuale trattamento di sovrappeso/obesità.

Gli approcci di TMN devono essere finalizzati a promuovere uno stile di vita più salutare incoraggiando l’impiego di diete sane e attività fisica regolare e possono essere di due tipi.

 

  1. Di base (primo livello).
  2. Avanzati (secondo livello).

 

  1. L’approccio di base viene spesso strutturato su percorsi di educazione di gruppo, per pazienti motivati disposti al cambiamento, e può essere messo in atto utilizzando due diverse modalità.
  2. Gli approcci avanzati sono riconducibili a tre tipi di metodologia.
    • La dieta prescrittiva personalizzata.
    • Le liste di scambio.
    • I metodi di counting (di calorie, grassi, carboidrati).

    • Dieta prescrittiva personalizzata
      Approccio semplice, utile sul lungo periodo per i pazienti con abitudini alimentari molto costanti, come gli anziani. Questa modalità è utile a convincere il soggetto che non deve stravolgere le sue abitudini alimentari, ma deve solo fare qualche variazione per migliorare il controllo della glicemia. Una volta noti abitudini e gusti del paziente, i cibi consumati abitualmente vengono trasformati in porzioni all’interno di liste di scambio. Tuttavia, essendo questo schema poco flessibile e monotono, c’è il rischio che molti pazienti facciano fatica a pianificare il pasto come descritto, lo vedano solo come un documento sanitario e, col tempo, smettano di seguirlo.

    • Liste di scambio
      Questo sistema si basa sul raggruppamento di cibi con simile valore nutrizionale e distribuzione dei nutrienti in una lista, in modo che alimenti dello stesso gruppo possano essere “scambiati” tra loro. Esistono 3 liste principali con le loro sottoliste. (i) Gruppo dei carboidrati (sottoliste: frutta, amidi, latte e derivati, verdure e ortaggi, altri carboidrati). (ii) Gruppo delle carni e sostituti della carne (sottoliste: carni molto magre, magre, a medio ed alto contenuto di grassi, ad alto contenuto di grassi). Gruppo dei (iii) grassi (sottoliste: grassi monoinsaturi, polinsaturi e saturi). Le liste di scambio consentono di mantenere costante l’assunzione dei vari nutrienti permettendo una discreta varietà nelle scelte e flessibilità nell’alimentazione. Questo approccio può essere utilizzato dai pazienti con diabete di tipo 1, 2 e gestazionale.

    • I metodi di counting (di calorie, grassi, carboidrati)

      Il COUNTING (CONTEGGIO/CONTA) DELLE CALORIE pone l’enfasi sulla densità calorica del cibo ed è appropriato per le persone sovrappeso/obese il cui obiettivo principale è il calo ponderale. Il paziente deve registrare il cibo assunto, imparare a calcolare le calorie introdotte con l’alimentazione e, infine, autogestire il piano nutrizionale rispettando l’introito calorico giornaliero programmato. Sebbene permetta un certo grado di flessibilità nella scelta dei cibi, questo schema necessita di un forte impegno da parte del paziente e ha lo svantaggio di non produrre necessariamente un piano nutrizionale bilanciato. Per correggere questo aspetto bisogna associare a tale metodo un intervento educativo di base sulla qualità degli alimenti.

      Il COUNTING (CONTEGGIO/CONTA) DEI GRASSI è un approccio di automonitoraggio in cui viene stabilita una quantità giornaliera di grassi da assumere con l’alimentazione e il paziente deve contarli e annotarli tutti. Questo strumento è stato largamente usato nella gestione delle malattie cardiovascolari e del peso. Sembra, infatti, che il conteggio dei grassi aiuti i pazienti ad imparare come ridurre l’introito di calorie, scegliendo alimenti poveri di grassi. Questa modalità è utile per ridurre il peso corporeo in soggetti con diabete di tipo 1 e 2, in particolare quelli che non sono riusciti a perdere peso usando altri approcci; è anche indicata per pazienti con elevati livelli di lipidi sierici. Si è, inoltre, osservato che i pazienti che contano i grassi migliorano la qualità dell’alimentazione selezionando più frutta, verdura, cereali e prodotti a basso contenuto di grassi. Lo svantaggio di questa tecnica sembra essere il fatto che rischia di focalizzarsi non tanto sul controllo della glicemia, ma prevalentemente sulla perdita di peso. Se i pazienti diabetici compensassero la riduzione dei grassi con un aumento dei carboidrati, rischierebbero di peggiorare i valori glicemici e di trigliceridi ematici.

      Il COUNTING (CONTEGGIO/CONTA) DEI CARBOIDRATI è stata identificata come la strategia più efficace (gold standard) per il controllo della glicemia nel paziente con diabete di tipo 1, in trattamento insulinico intensivo e/o microinfusore. Inoltre, tra le strategie di counting, è sicuramente la più opportuna ed efficace dal punto di vista dell’educazione nutrizionale del paziente. Può essere rivolta anche al diabetico di tipo 2, in trattamento intensivo con insulina, e anche ai pazienti con abitudini di vita non regolari che richiedono un’estrema flessibilità. Si basa sul concetto che il contenuto in carboidrati del pasto è il maggior determinante del fabbisogno insulinico pre-prandiale (prima di un pasto). Ne consegue che, per ricavare una stima abbastanza precisa del fabbisogno insulinico di un pasto o di uno spuntino, è sufficiente contare i grammi di carboidrati in esso contenuti. Se la dose di insulina viene adattata al quantitativo di carboidrati assunti, l’aumento della glicemia è simile indipendentemente dal quantitativo di grassi, fibre, proteine ed indice glicemico dato dal totale degli alimenti consumati. È noto che 1 unità (U) di insulina pre-prandiale metabolizza dai 10 ai 15 g di carboidrati (= rapporto insulina/carboidrati - I/CHO = 1/15). Una volta conosciuto il contenuto di carboidrati di un pasto (calcolabile grazie alle apposite tabelle di composizione degli alimenti e/o alle tabelle nutrizionali, nel caso dei cibi confezionati) basterà dividerlo per 15 e si otterranno le unità di insulina che è necessario iniettarsi per “coprire” quel pasto.

      Esempio: se un pasto contiene in totale 60 g di carboidrati, sapendo che il rapporto I/CHO è 1/15 -> 60/15 = 4U di insulina rapida pre-prandiale che bisognerà iniettarsi per metabolizzare i carboidrati del pasto.

      Per approfondire la conoscenza del counting dei carboidrati consultare i siti a seguire.
      Impariamo a contare i carboidrati.
      Diabete: la conta dei carboidrati (conta CHO) in 5 passi.

In linea generale, la TMN comprende le stesse raccomandazioni che dovrebbero essere seguite anche dalla popolazione adulta sana, per diminuire il rischio di sviluppare non solo il diabete, ma molte altre patologie croniche.

È quindi possibile individuare delle raccomandazioni e dei suggerimenti comuni tra le TMN utilizzate nella cura delle varie tipologie di diabete.

  1. Uno degli obbiettivi della TMN è il raggiungimento e/o il mantenimento di un peso corporeo corretto. Per tutti gli individui in sovrappeso o obesi gli “Standard italiani per la cura del diabete mellito” raccomandano un calo ponderale del 5% (da raggiungere sia con la TMN che con un’adeguata attività fisica).
  2. L’apporto calorico giornaliero non varia rispetto a quello del soggetto non diabetico, tenendo in considerazione costituzione, peso, sesso, età, attività fisica etc.
  3. Una dieta con pochi grassi e ad elevato contenuto di fibre determina una maggiore riduzione ponderale e una minore incidenza di diabete, rispetto a una dieta più ricca in grassi e povera di fibre.
  4. A meno di situazioni particolari, la distribuzione dei macronutrienti raccomandata coincide sostanzialmente con quella per la popolazione adulta generale sana.
    • Il 45-60% dell’energia giornaliera dovrebbe essere assicurato dai carboidrati, preferibilmente complessi (da legumi e cereali integrali), ma includendo anche quelli provenienti da frutta e verdura; così da garantire, inoltre, una buona assunzione di fibra.
    • Il consumo di zuccheri semplici non deve superare il 10% dell’energia giornaliera.
    • Al momento, non esistono evidenze per suggerire alle persone con diabete mellito l’uso di diete a basso contenuto di carboidrati (ovvero con una restrizione al di sotto dei 130 g/die).
    • Il 20-35% dell’energia giornaliera deve derivare dai grassi totali, di cui < 10% dai saturi (da ridurre a < 8% in presenza di valori di LDL elevati), 10-20% dai monoinsaturi, < 10% dagli acidi grassi polinsaturi omega-6.
    • Per assumere un adeguato quantitativo di acidi grassi polinsaturi omega-3, si consiglia di consumare pesce almeno 2 volte a settimana.
    • L’assunzione di acidi grassi polinsaturi omega-3 può avvenire anche da alimenti di origine vegetale (noci, semi di canapa, semi di chia, semi di lino, soia secca).
    • L’apporto di colesterolo deve essere < 300 mg/die (da ridurre a < 200 mg/die in presenza di valori plasmatici elevati di colesterolo).
    • I grassi trans andrebbero fortemente ridotti o eliminati.
    • Le proteine dovrebbero rappresentare il 10-20% dell’energia totale; il contenuto proteico giornaliero della dieta del paziente diabetico - senza nefropatia conclamata - è quindi simile a quello della popolazione adulta generale: 0,8-1,0 g/kg. Nei soggetti con qualsiasi grado di malattia renale cronica, per ridurre il rischio di sviluppare un’insufficienza renale terminale, l’apporto proteico deve essere limitato a 0,8 g/kg/die. Al momento non è possibile raccomandare diete ad alto contenuto proteico per favorire il calo ponderale nelle persone affette da diabete. Infatti, l’effetto nel lungo periodo sul rischio cardiovascolare e sulla funzione renale di una dieta con un contenuto proteico superiore al 20%, in questi pazienti, non è ancora noto.
  5. Generalmente, le calorie della giornata dovrebbero essere adeguatamente suddivise e ripartite in queste proporzioni: colazione 15-20%, spuntino 5%, pranzo 35-40%, merenda 5% e cena 30-35%.
  6. Nelle persone con diabete è raccomandata un’assunzione di fibra anche oltre i 40 g/die (o di almeno 14 g/1000 kcal/die), soprattutto di tipo solubile.
  7. Il consumo di sale giornaliero raccomandato è < 6 g; i pazienti ipertesi o con malattia renale che non riescano a raggiungere i target terapeutici non dovrebbero superare i 4 g.
  8. Il consumo di alcol andrebbe scoraggiato, tuttavia, se la persona desidera comunque berne, non dovrebbe superare 1 unità alcolica* al giorno, se donna, e 2 unità alcoliche al giorno, se uomo (*1 unità alcolica » 12,5 g di etanolo). Sebbene questi valori di alcol non incidano sulla glicemia, i carboidrati contenuti nella quantità corrispondente di bevanda possono avere un impatto importante sul profilo glicemico. Nei soggetti obesi o con ipertrigliceridemia, nelle donne in gravidanza e nei pazienti con storia di pancreatite l’assunzione di bevande alcoliche va scoraggiata.
  9. Non esistono evidenze che dimostrino un effetto positivo sulla gestione del diabete dovuto alla supplementazione di vitamine o minerali. Si incoraggia, piuttosto, l’introduzione di cibi naturalmente ricchi di queste sostanze - oltre che di vari fitocomposti - come frutta e verdura.
  10. Non esistono prove che dimostrino la sicurezza e l’efficacia dei nutraceutici sul controllo glicemico nelle persone con prediabete e diabete e sulla riduzione del rischio di sviluppare diabete di tipo 2.
  11. I dolcificanti acalorici non nutritivi, sono sicuri quando consumati nelle quantità giornaliere raccomandate.
  12. Non esistono evidenze per consigliare l’uso di alimenti “dietetici” per diabetici.
  13. L’introduzione di adeguati quantitativi di liquidi e carboidrati e il controllo della glicemia devono essere raccomandati nel corso di malattie acute intercorrenti.

La TMN nel paziente affetto da prediabete, impostata per normalizzare i valori glicemici e diminuire il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, deve essere personalizzata, ma se ne possono individuare le caratteristiche salienti generali. Oltre a valere le raccomandazioni descritte in precedenza, questi pazienti devono fare attenzione anche a quanto segue.

  • Ridurre l’apporto totale di grassi a meno del 30% dell’energia giornaliera, facendo particolare attenzione ai saturi (meno del 10%).
  • Aumentare il consumo di fibre vegetali ad almeno 15 g/1000 kcal.
  • Nelle persone affette da prediabete, una dieta povera in grassi e ricca in fibre riduce il rischio di sviluppare diabete di tipo 2.
  • Per raggiungere, senza troppa difficoltà, i livelli di fibra suggeriti si raccomanda di seguire una dieta di tipo mediterraneo, ricca di ortaggi, frutta, legumi e cereali non raffinati e povera di grassi di origine animale, alimenti processati e ricchi di zuccheri semplici.
  • Gli studi a disposizione non permettono di raccomandare un moderato consumo di alcol nei soggetti ad alto rischio di sviluppare diabete di tipo 2.

Sebbene il diabete di tipo 1 non sia prevenibile con interventi nutrizionali mirati, seguire un’alimentazione completa e sana (come quella precedentemente descritta), insieme ad un’adeguata attività fisica e alla terapia farmacologica, aiuta a stabilizzare la glicemia, mantenere un buono stato di salute generale e diminuire il rischio di complicanze.

Vista la peculiarità di questa patologia, è imprescindibile che il team diabetologico elabori una TMN ad personam che si possa associare efficacemente al trattamento della malattia, adeguando la terapia insulinica all’apporto dei vari nutrienti, così da ottenere un opportuno controllo glicemico. Tuttavia, alcune raccomandazioni/strategie dietetiche accomunano gli interventi nutrizionali per i diabetici di tipo 1.

  • I pazienti in terapia insulinica “basal bolus” devono modificare le iniezioni di insulina pre-prandiali sulla base dei carboidrati contenuti nei pasti.
  • Per questo motivo le strategie dietetiche note come diete a scambio o liste di scambio e counting dei carboidrati sono importanti per il controllo glicemico nei pazienti in terapia insulinica di base.
  • La strategia del counting dei carboidrati, in particolare, è stata identificata come la più efficace per il controllo della glicemia nel paziente con diabete di tipo 1 in trattamento insulinico intensivo e/o microinfusore. La decisione di utilizzare tale tecnica, tuttavia, deve essere sempre valutata caso per caso, dato che il paziente deve essere motivato all’autogestione, aderente all’autocontrollo glicemico e in grado di utilizzare un algoritmo di correzione della glicemia. Infine, serve un team diabetologico formato per pianificare un percorso specifico di educazione al counting dei carboidrati.
  • Nei pazienti trattati con dosi costanti di insulina, l’introduzione dei carboidrati ai pasti deve essere mantenuta costante nelle quantità e nei tempi.
  • Anche nei pazienti con diabete di tipo 1 è opportuno raccomandare di prediligere i carboidrati a minor indice glicemico.
  • I pazienti devono essere informati sull’indice glicemico dei vari alimenti e istruiti ad effettuare le opportune correzioni della dose di insulina quando consumino carboidrati ad alto IG.
  • Nei pazienti con diabete di tipo 1 e nefropatia conclamata, le proteine dovrebbero essere assunte nella quantità di 0,8 g/kg/die.
  • Alcune evidenze suggeriscono che un elevato consumo di fibre (circa 50 g/die) riduce la glicemia in individui con diabete tipo 1.
  • L’assunzione di alcool nei pazienti trattati con insulina deve avvenire nel contesto di pasti contenenti glucidi, per prevenire, soprattutto di notte, il rischio di pericolose prolungate ipoglicemie.

Anche per le persone affette da diabete di tipo 2 è consigliata un TMN individualizzata, da parte di personale esperto inserito in un team diabetologico, per raggiungere gli obiettivi terapeutici di controllo glicemico stabiliti. Oltre alle raccomandazioni generali precedentemente descritte, questi pazienti devono tener presente anche quanto segue.

  • Ai soggetti adulti sovrappeso e/o obesi affetti da diabete di tipo 2 è raccomandato un calo ponderale, tramite una dieta sana e moderatamente ipocalorica e lo svolgimento di una regolare attività fisica.
  • Nel breve termine (2 anni), sia una dieta a basso contenuto di grassi e calorie, sia una a basso contenuto di CHO, sia una dieta mediterranea ricca in fibre e vegetali possono essere efficaci nel determinare un calo ponderale. Tuttavia, le diete a basso contenuto di CHO (chetogenica, iperproteica etc.) sembrano produrre una maggiore perdita di peso (ma non una maggiore riduzione della glicemia) solo a breve termine; la differenza, infatti, tende a scomparire con il passare del tempo. Inoltre, questa tipologia di diete aumenta i livelli di colesterolo cattivo LDL. Non esistono, infine, dati che mostrino l’efficacia a lungo termine delle diete ipoglucidiche/iperproteiche sulla diminuzione del rischio cardiovascolare né che ne provino la sicurezza sulla funzione renale. Di contro, l’aderenza ad un modello alimentare mediterraneo, in assenza di calo ponderale, riduce del 52% l’incidenza di diabete, rispetto ad una dieta povera di grassi.
  • Vegetali, legumi, frutta e cereali integrali devono essere parte integrante della dieta dei diabetici di tipo 2. Quando l’apporto dei carboidrati si colloca al limite superiore raccomandato, è importante scegliere cibi ricchi in fibre e con un basso IG.
  • Un elevato consumo di fibre (intorno ai 50 g/die) riduce glicemia, insulinemia e lipemia (= concentrazione di lipidi nel sangue) in soggetti con diabete tipo 2.
  • Le diete a scambio o il conteggio dei CHO sono importanti per il controllo glicemico nei pazienti in terapia insulinica basal-bolus.
  • Gli alimenti contenenti prevalentemente zuccheri semplici, se inseriti nel piano nutrizionale, devono sostituirne altri contenenti CHO. Se aggiunti, devono essere gestiti aumentando il bolo insulinico o con altri farmaci ipoglicemizzanti. L’eccessivo consumo di zuccheri semplici e saccarosio può determinare incremento di peso, ipertrigliceridemia e insulino-resistenza.
  • Nonostante i limiti evidenziati, è bene considerare l’IG nella scelta degli alimenti. Una dieta a basso indice glicemico può determinare un miglioramento del controllo glicemico, riducendo anche il rischio di ipoglicemie.
  • L’introduzione di proteine può condizionare un aumento della risposta insulinica post-prandiale (vedi Indice Insulinico/Insulinemico), senza aumentare la concentrazione di glucosio nel sangue. Per questo le proteine non devono essere utilizzate per trattare un episodio acuto ipoglicemico o prevenire eventuali ipoglicemie
  • L’assunzione di bevande alcoliche, nei pazienti trattati con insulina, deve avvenire nel contesto di pasti che contengano CHO, per prevenire (soprattutto di notte) il rischio di pericolose prolungate ipoglicemie.
  • La TMN deve essere considerata una componente del programma di gestione della glicemia per tutti i soggetti ricoverati con diabete e/o iperglicemia.
  • Le linee guida per il trattamento del diabete di tipo 2 negli adulti non ricoverati, elaborate da SID e AMD nel 2021, hanno confrontato l’effetto di una terapia nutrizionale a basso contenuto di carboidrati (chetogenica, iperproteica etc.) con una di tipo mediterraneo. Gli studi analizzati hanno dimostrato, sebbene in via preliminare, che nel lungo termine sia preferibile adottare la dieta mediterranea e non quella a basso contenuto di carboidrati. Quest’ultima, infatti, non mostra, nel tempo, risultati soddisfacenti né sul controllo glicemico né su quello ponderale. Queste raccomandazioni, in ogni caso, necessitano dell’analisi di nuovi trials di buon livello per poter essere considerate valide nel trattamento del diabete di tipo 2.
  • Le stesse linee guida hanno valutato se fosse più efficace, per il trattamento del diabete di tipo 2, un intervento nutrizionale strutturato o le semplici raccomandazioni/indicazioni nutrizionali generiche. Sebbene la raccomandazione che emerge sia ancora debole e con qualità delle prove bassa (per via dei pochi studi esistenti effettuati su campioni molto ristretti e poco significativi), il panel di esperti suggerisce di preferire una terapia nutrizionale strutturata ai consigli generici.
  • Maggiori dettagli sulla composizione ottimale che dovrebbe avere la dieta per il diabete di tipo 2 sono evidenziati nella tabella sottostante.

 

Componenti

della dieta

Quantità complessiva consigliata

Quantità consigliata dei singoli nutrienti

Consigli pratici

Carboidrati

Carboidrati 45-60% kcal tot (III, B)*.

Saccarosio e altri zuccheri aggiunti <10% (I, A)*.

Vegetali, legumi, frutta, cereali preferibilmente integrali, alimenti della dieta mediterranea (III, B)*.

Fibre

>40 g/die (o 20 g/1000 kcal die), soprattutto solubili (I, A)*.

 

5 porzioni a settimana di vegetali o frutta e 4 porzioni a settimana di legumi (I, A)*.

Proteine

10-20% kcal tot (VI, B)*.

 

 

Grassi

35% kcal tot (III, B)*.

Saturi <10, <8% se LDL elevato (I, A).

MUFA 10-20% (III, B).

PUFA 5-10% (III, B).

Evitare acidi grassi trans (VI, B).

Colesterolo <300 mg/die,

<200 mg/die se colesterolo elevato (III, B)*.

Tra i grassi da condimento preferire quelli vegetali (tranne olio di palma e di cocco).

Sale

<6 g/die (I, A)*.

 

Limitare il consumo di sale e di alimenti conservati sotto sale (insaccati, formaggi, scatolame).

 

Indicazioni generali per la composizione ottimale della dieta nel diabete di tipo 2.

Tratta da “Standard italiani per la cura del diabete mellito 2018.

 

*Livelli di prova e forza delle raccomandazioni

I = Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o revisioni sistematiche di studi randomizzati.

III = Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi.

VI = Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee-guida o “consensus conference”, o basate su opinioni dei membri del gruppo di lavoro responsabile di queste linee-guida.

A = L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II.

B = Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba sempre essere raccomandata, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata.

La terapia nutrizionale in gravidanza deve essere personalizzata, tenendo conto non solo dell’indice di massa corporea (IMC) pregravidico ma anche dello stato di salute generale, delle abitudini alimentari, culturali, etniche e dello stato economico della donna con diabete gestazionale. La dieta dovrà garantire un’adeguata nutrizione materna e fetale, un corretto apporto calorico, vitaminico, minerale a fronte di un controllo glicemico ottimale, in assenza di alterazioni nella produzione dei corpi chetonici.

Sebbene ogni TMN vada personalizzata, si può identificare uno schema nutrizionale generale, che ricorda molto le raccomandazioni generali descritte all’inizio del paragrafo.

L’introito calorico complessivo andrebbe preferibilmente distribuito in 3 pasti principali e 3 spuntini (metà mattina, metà pomeriggio e prima di dormire), suddividendo le calorie giornaliere in questo modo: prima colazione 10-15%; pranzo 20-30%; cena 30-40%; spuntini 5-10%. Lo spuntino serale dovrebbe contenere circa 25 g di carboidrati complessi e 10 di proteine per prevenire ipoglicemie notturne e chetosi al risveglio. Il rapporto fra i diversi macronutrienti prevede il 50% di carboidrati (complessi e a basso IG), il 20% di proteine, il 30% di lipidi (prevalentemente mono e polinsaturi) e almeno 28 g/die di fibra. Per limitare le escursioni glicemiche postprandiali può essere presa in considerazione una leggera riduzione dell’apporto di carboidrati, che comunque non deve essere inferiore al 40%, dato il rischio di chetogenesi.

Il calo ponderale, in questa fase, non è raccomandato; comunque, per donne in sovrappeso/obese con diabete gestazionale può essere suggerita una modesta restrizione calorica e glucidica. Dopo il parto, al fine di diminuire il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, sono raccomandate modificazioni dello stile di vita finalizzate al raggiungimento del corretto peso corporeo, tra cui dieta ed esercizio fisico.

Per quanto riguarda la terapia medica nutrizionale del paziente diabetico in ospedale, che è sempre considerata una componente importante del programma di gestione della glicemia, si rimanda ad altre fonti.

Attività fisica

Svolgere regolarmente attività fisica consente a tutti di mantenere e/o migliorare lo stato di salute, non fanno quindi eccezione le persone affette da prediabete e da qualsiasi forma di diabete mellito.

Tra i fattori di rischio che predispongono a sviluppare il prediabete vi è la sedentarietà, la quale diminuisce la sensibilità all’insulina. Una regolare attività fisica è, quindi, fortemente raccomandata sia per prevenire che per trattare questa condizione. Il movimento, infatti, oltre a diminuire i fattori di rischio cardiovascolari, (ipertensione, ipertrigliceridemia etc.), tenere sotto controllo il peso corporeo, ottenere un calo ponderale quando necessario (in combinazione con una corretta alimentazione), migliora la sensibilità all’insulina. Ciò permette di contrastare l’insulino-resistenza e le alterazioni dei valori glicemici. L’esercizio, infatti, come spiegato in dettaglio nel prossimo paragrafo, aumenta la capacità del tessuto muscolare di assorbire glucosio il quale, durante l’attività fisica, può essere captato dalle cellule del muscolo anche in assenza di insulina.

A meno di un parere medico contrario (per esempio in caso di gravi complicanze vascolari), è oramai risaputo che anche le persone affette da diabete di tipo 1 possono praticare qualsiasi tipo di sport (aerobici, di squadra, esercizi contro resistenza). Secondo le ultime indicazioni dell’ADA, adulti affetti da diabete di tipo 1 dovrebbero svolgere almeno 150 minuti di attività fisica aerobica a settimana, da moderata a vigorosa e/o almeno 75 minuti a settimana di esercizio fisico vigoroso, meglio se spalmato su 3 giorni (evitando di rimanere inattivi per più di 2 giorni consecutivi). Inoltre, viene suggerito di svolgere esercizi contro resistenza, per 2-3 volte a settimana, in giorni non consecutivi. L’attività fisica, infatti, oltre ai noti benefici che apporta, aiuta a regolare i valori glicemici e metabolici, aumenta il senso di benessere psicologico, riduce ansia e depressione, accresce la fiducia in sé stessi e nella gestione della malattia. L’importante, però, è prestare sempre attenzione allo stato glicemico, bilanciando in maniera accurata tipologia, quantità di alimenti e insulina esogena assunti, in base alla durata e all’intensità dell’esercizio che verrà eseguito.

Quando viene svolta attività fisica, i muscoli necessitano di energia per lavorare, principalmente sotto forma di glucosio. Questo può essere già presente nel circolo sanguigno, oppure provenire dalla degradazione delle riserve energetiche di glicogeno (presenti in fegato e muscolo). Quando la durata dell’esercizio supera i 30 minuti, invece, l’energia viene anche ottenuta dalla degradazione dei grassi di deposito (lipolisi). Grazie all’azione combinata di particolari ormoni, detti iperglicemizzanti - come glucagone, ormone della crescita e cortisolo - (che stimolano sia la liberazione del glucosio dalle riserve di glicogeno sia la lipolisi) e dell’insulina (che permette di richiamare il glucosio circolante all’interno delle cellule), durante l’attività sportiva i muscoli, ma anche il resto degli organi, possono ricevere l’energia di cui necessitano. Tuttavia, durante l’esercizio, il tessuto muscolare riesce ad aumentare la sua capacità di assorbire glucosio (migliorando la sensibilità insulinica) e anche a captarlo in assenza di insulina. Infine, quando l’attività termina, l’assorbimento di glucosio da parte del muscolo rimane elevato per le 48 ore successive.

Alcuni di questi processi fisiologici risultano alterati in chi soffre di diabete di tipo 1, per questo, per praticare attività fisica in sicurezza, è importante rispettare degli accorgimenti nutrizionali e farmacologici e controllare sempre i valori della glicemia prima, durante (se l’allenamento va oltre i 30 minuti) e dopo l’esercizio fisico. Inoltre, la dose di insulina deve essere tarata in base alla durata e all’intensità dell’esercizio, così da evitare sia gli stati di iperglicemia che di ipoglicemia (abbassamento del glucosio nel sangue sotto la soglia di 60-70 mg/dl) che potrebbero verificarsi. Se infatti venisse iniettata una dose troppo bassa di insulina, anche se fosse disponibile glucosio circolante, l’atleta non riuscirebbe ad assorbirlo ed utilizzarlo; come reazione, gli ormoni iperglicemizzanti ne libererebbero altro dalle scorte di glicogeno, determinando sia un aumento pericoloso delle concentrazioni ematiche di glucosio, che continua a non poter essere assorbito (iperglicemia), sia la liberazione dei corpi chetonici (come risultato della degradazione dei grassi di deposito). L’atleta si troverebbe così a rischio di acidosi metabolica e grave scompenso glicemico.

Altrettanto pericolosa è la situazione in cui ci si dovesse iniettare una dose troppo elevata di insulina: il glucosio libero verrebbe assorbito molto velocemente e gli ormoni iperglicemizzanti sarebbero inibiti dal liberarne altro. Come risultato la concentrazione di glucosio nel sangue diminuirebbe troppo velocemente, provocando un’improvvisa ipoglicemia, pericolosa anche per il cervello. Infine, il diabetico di tipo 1 deve tenere in considerazione il fatto che, nelle ore successive alla cessazione dell’esercizio, il muscolo continua a prelevare glucosio dal torrente circolatorio, per ripristinare le sue scorte di glicogeno. Se terapia e alimentazione non sono state adeguatamente regolate, il soggetto potrebbe incorrere in un’ipoglicemia ritardata, fino a oltre 12 ore dalla cessazione dell’esercizio.

Vista la complessità delle condizioni metaboliche appena descritte e l’eterogeneità dei casi di diabete di tipo 1, non è possibile in questo contesto dare indicazioni generali di tipo nutrizionale (integrazione con carboidrati, quando necessario) o farmacologico, da applicare durante lo svolgimento degli esercizi, né tantomeno suggerire quantità, intensità e tipologia dell’attività fisica da eseguire. Si raccomanda, quindi, di evitare il “fai-da-te” e rivolgersi sempre al proprio medico/team diabetologico, che sapranno indicare i professionisti più adatti con cui stabilire un piano farmacologico, nutrizionale e sportivo, adeguato ad ogni caso specifico.

Come già detto precedentemente, tra i fattori di rischio che concorrono a sviluppare il diabete di tipo 2 troviamo: valori glicemici alterati (condizione di prediabete), eccesso di peso corporeo, sedentarietà, ipertensione, bassi livelli di colesterolo buono (HDL) ed elevati livelli di trigliceridi. Tutte queste condizioni sono prevenibili e migliorabili praticando una regolare attività fisica che, di conseguenza, è fortemente raccomandata, sia per prevenire (se asintomatici o in condizione di prediabete) che per trattare la patologia. Il movimento, infatti, migliora il profilo lipidico, la pressione arteriosa, le aritmie e di conseguenza riduce il rischio di eventi cardio e cerebrovascolari maggiori. L’attività fisica consente anche di tenere sotto controllo il peso corporeo (diminuendo il rischio di incorrere in sovrappeso), ottenere un calo ponderale (soprattutto nel paziente sovrappeso o obeso e in combinazione con una corretta alimentazione), migliorare la sensibilità all’insulina e, di conseguenza, contrastare insulino-resistenza e alterazioni dei valori glicemici. L’esercizio, infatti, come già detto nel paragrafo sul diabete di tipo 1, aumenta la capacità del tessuto muscolare di assorbire glucosio il quale, durante l’attività fisica, può anche essere captato dalle cellule del muscolo in assenza di insulina.

Secondo le ultime indicazioni dell’ADA, adulti affetti da diabete di tipo 2 dovrebbero svolgere almeno 150 minuti di attività fisica aerobica a settimana, da moderata a intensa e/o almeno 75 minuti a settimana di esercizio fisico vigoroso, meglio se spalmato su 3 giorni (evitando di rimanere inattivi per più di 2 giorni consecutivi). Inoltre, viene suggerito di svolgere esercizi contro resistenza, per 2-3 volte a settimana, in giorni non consecutivi. In generale, l’ADA consiglia a tutti gli adulti, ma in particolare a quelli affetti da diabete di tipo 2, di diminuire le attività sedentarie, cercando di interromperle ogni 30 minuti, questo comporta dei benefici sul controllo della glicemia. Infine, agli anziani con diabete di tipo 2 viene consigliato di svolgere anche, 2-3 volte a settimana, esercizi per migliorare flessibilità ed equilibrio.

Date le possibili complicanze associate alla patologia, nella promozione e implementazione dei programmi di attività fisica è fondamentale calibrare gli esercizi tenendo in considerazione il profilo di rischio di ogni paziente, il trattamento farmacologico a cui è sottoposto, la sua capacità funzionale, l’efficienza fisica, nonché tutti i fattori in grado di influire sull’aderenza al programma. Particolarmente cruciale risulta:

  • valutare l’eventuale presenza di complicanze micro- e macro-vascolari;
  • monitorare la glicemia;
  • assicurare uno stato di idratazione ottimale (in modo da evitare eventuali alterazioni glicemiche e cardiache);
  • raccomandare l’uso di calzature idonee (per evitare potenziali traumi ai piedi).

Vista l’estrema eterogeneità delle tipologie di diabete di tipo 2 (da problemi di insulino-resistenza di varia entità fino a casi di gravi deficit di secrezione insulinica), non è possibile in questo contesto dare indicazioni generali di tipo nutrizionale o farmacologico da applicare durante lo svolgimento degli esercizi, né tantomeno suggerire quantità, intensità e tipologia dell’attività fisica da eseguire. Si raccomanda, quindi, di evitare il “fai-da-te” e rivolgersi sempre al proprio medico/team diabetologico, che sapranno indicare i professionisti più adatti con cui stabilire un piano farmacologico, nutrizionale e sportivo, adeguato ad ogni caso specifico. Specifici programmi di esercizio fisico, infatti, dovrebbero essere sempre inclusi nei percorsi terapeutici dei pazienti affetti da diabete di tipo 2, in condizioni di stabilità clinica.

La gravidanza è una condizione fisiologica durante la quale, spesso, la donna diminuisce drasticamente e/o interrompe l’attività sportiva. Questo comportamento andrebbe scoraggiato in quanto, in particolare nelle donne predisposte e/o in sovrappeso, instaurare abitudini sedentarie in questa fase della vita può favorire l’insorgenza di malattie metaboliche croniche, come il diabete gestazionale, rischiose sia per la madre che per il feto.

Al contrario, quindi, l’esercizio fisico viene in aiuto anche in gravidanza, permettendo non solo di diminuire il rischio d’insorgenza di diabete gestazionale ma anche:

  • contrastare l’aumento eccessivo di peso;
  • migliorare funzionalità cardiocircolatoria, forza e resistenza muscolare;
  • mantenere e migliorare coordinazione ed equilibrio;
  • prevenire o ridurre la gravità dei disturbi muscoloscheletrici;
  • prevenire o diminuire l’incontinenza urinaria;
  • ridurre il rischio di macrosomia fetale (peso del bimbo alla nascita > 4 kg) e di pre-eclampsia (condizione caratterizzata da ipertensione e presenza di proteine nelle urine).

Anche quando si viene colpite da diabete gestazionale, un adeguato esercizio è raccomandato. Come già spiegato per diabete di tipo 1 e 2, infatti, una regolare attività fisica aumenta la capacità del tessuto muscolare di assorbire glucosio, contrastando l’insulino-resistenza e tenendo sotto controllo i valori della glicemia.

Secondo l’AMD, alle donne con diabete gestazionale dovrebbero essere raccomandati esercizi fisici prevalentemente aerobici, della durata di 20-30 minuti (camminare, nuotare, ginnastica dolce, etc.), da svolgere il più frequentemente possibile, anche ogni giorno. Chiaramente, si consiglia di cominciare l’attività prescelta in modo molto leggero, aumentandone l’intensità gradualmente.

Vista la delicatezza delle condizioni fisiologiche tipiche della gravidanza e l’eterogeneità di casi di diabete gestazionale, non è possibile in questo contesto dare indicazioni generali di tipo nutrizionale o farmacologico da applicare durante lo svolgimento degli esercizi, né tantomeno suggerire quantità, intensità e tipologia dell’attività fisica da eseguire. Si raccomanda, quindi, di evitare il “fai-da-te” e rivolgersi sempre al proprio ginecologo/medico/team diabetologico, che sapranno indicare i professionisti più adatti con cui stabilire un piano farmacologico, nutrizionale e sportivo, adeguato ad ogni caso specifico.

Decalogo Smart per la prevenzione di prediabete, diabete di tipo 2 e gestazionale

  1. Cerca di essere sempre fisicamente attivo. Anche una semplice passeggiata quotidiana di 30 minuti a passo sostenuto può essere efficace.
  2. Mantieni un peso sano o, se sei in sovrappeso, contatta uno specialista per intraprendere un programma di dimagrimento.
  3. Consuma almeno 5 porzioni al giorno tra verdura e frutta.
  4. Prediligi il consumo di cereali integrali (pane, pasta, cereali in chicco etc.).
  5. Tra le fonti proteiche, privilegia legumi (da 3 a 5 volte a settimana) e pesce fresco (da 3 a 5 volte a settimana).
  6. Per condire, scegli grassi buoni, come l’olio extravergine d’oliva e quelli contenuti in frutta a guscio e semi oleosi.
  7. Diminuisci il consumo di alimenti processati e di quelli ricchi in sale, grassi saturi e trans, come carne lavorata, salumi, alimenti conservati sotto sale, formaggi grassi e stagionati.
  8. Limita il consumo di cibi ricchi di zuccheri semplici come dolciumi, bevande zuccherate, yogurt aromatizzati, gelati, caramelle etc.
  9. Evita il consumo di bevande alcoliche. Se proprio non riesci, non superare 1 unità alcolica al giorno, se donna, 2, se uomo.
  10. Non iniziare a fumare e se fumi (anche sigarette elettroniche) scegli di smettere. I centri antifumo, potranno aiutarti in questo processo!

DISCLAIMER

Le informazioni contenute in questo testo hanno esclusivamente uno scopo divulgativo e potranno essere modificate e/o rimosse in qualsiasi momento. In nessun modo, inoltre, intendono formulare diagnosi e/o prescrivere trattamenti. Di conseguenza, nessuna delle indicazioni presenti in questo approfondimento intende e/o può sostituire il rapporto diretto tra medico e paziente.

Raccomandiamo a tutti e, in particolare, a chi è affetto da una o più patologie, di rivolgersi sempre al proprio medico curante e/o agli altri specialisti sanitari di settore, prima di assumere integratori, farmaci, seguire particolari diete e/o programmi di allenamento sportivo.

Fonti:

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