Già da molti anni, numerosi centri di ricerca, organizzazioni e alleanze nazionali e internazionali, come la FAO, le Nazioni Unite, l’EAT Lancet Commission e il Barilla Center for Food and Nutrition, riportano che i processi produttivi legati al cibo hanno un fortissimo impatto ambientale.
A livello mondiale, la produzione alimentare è responsabile del 70% dei prelievi di acqua dolce, circa il 50% della superficie terrestre è sottoposta ad attività agricole e zootecniche e il 26% delle emissioni di gas serra deriva proprio dai processi produttivi legati al cibo.
In particolare, è emerso chiaramente che per tutti gli indicatori (emissioni di CO2, utilizzo di superficie terrestre, consumo energetico, potenziale di acidificazione dell’ambiente e eutrofizzazione delle acque), gli alimenti di origine animale, in particolare la carne bovina e di agnello, si collocano sempre ai primi posti.
In linea con questi dati, gli scienziati hanno valutato che anche solo dimezzare i consumi di carne rossa avrebbe un effetto positivo in termini di consumo di terra, di acqua e di impatto sul clima. Queste azioni sarebbero molto utili anche per trovare soluzioni urgenti per sfamare la popolazione mondiale in continua crescita, che attualmente vede un gap del 70% tra la produzione alimentare attuale e la domanda prevista nel 2050. È stato stimato che il passaggio a diete con un maggior contenuto di vegetali (senza dover ricorrere necessariamente a quelle vegetariane o vegane) potrebbe già ridurre questo gap del 30%.
Oltre a suggerire di prediligere questa tipologia di alimentazione, gli scienziati stanno attualmente considerando anche l’impiego di fonti proteiche alternative, che in alcuni paesi sono già in commercio e/o appartengono alla cultura culinaria del luogo. Stiamo parlando degli insetti (e/o prodotti che ne contengano le farine), ma anche di carne, pesce e latticini coltivati in laboratorio.
Ma queste tipologie di alimenti sono veramente sicure e a basso impatto ambientale? Saranno loro il futuro dell’alimentazione globale?
Già nel “lontano” 2021 la Commissione europea autorizzò il commercio di prodotti, destinati al consumo umano, a base di larve di Tenebrio molitor (larva gialla della farina), di Locusta migratoria (congelata, liofilizzata, in pasta o in polvere) e di larve di Alphitobius diaperinus (verme della farina minore). Da quasi un anno, invece, ha consentito la vendita di farine a base di insetto, nello specifico della polvere di Acheta domesticus, nome scientifico del grillo domestico. Dal 24 gennaio 2023, perciò, la farina di grillo, e tutti i prodotti che la contengono (come dolci, cioccolato, prodotti da forno, salse, sostituti della carne e bevande) possono essere venduti liberamente in tutta Europa, Italia inclusa. Potremo quindi trovarli sia su scaffali dedicati nei supermercati che nelle cucine dei ristoranti, sempre adeguatamente segnalati. Dovrà anche essere sempre regolarmente prevista l’aggiunta di un avviso fondamentale per le persone allergiche a crostacei, molluschi, acari della polvere ed eventuali allergeni presenti nell’ambiente in cui vengono allevati gli insetti o nei mangimi con cui vengono nutriti (per esempio nel caso in cui contengano glutine). Questo tipo di informazione risulta anche molto utile per vegetariani, vegani e chi segue particolari norme religiose.
Va, innanzitutto, specificato che la Commissione europea non ha autorizzato il consumo di qualsiasi tipologia di alimento a base di insetti, bensì solo quelli definiti sicuri dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e provenienti da specifici produttori.
In termini di valori nutrizionali, mediamente, gli insetti contengono circa il 70% di proteine, una quantità molto superiore a quella della carne di pollo, che ne ha in media circa il 25%.Nel caso specifico della “polvere di grillo parzialmente sgrassata” (detta anche farina), i grassi totali sono inferiori al 12%, il contenuto proteico è un po’ superiore al 70% e la componente di fibra si aggira attorno al 9%. La fibra è sostanzialmente costituita da una peculiare sostanza: la chitina. Questo carboidrato complesso, simile alla cellulosa, rappresenta la componente principale dell’esoscheletro degli insetti (l’apparato esterno che li protegge e sostiene) e il suo contenuto può variare dal 5% al 9%. Sembrerebbe che l’assunzione di chitina abbia degli effetti positivi sul nostro microbiota, favorendo la proliferazione di batteri “buoni” e ostacolando la crescita di quelli “cattivi”.
Gli insetti, che vengono nutriti con mangimi 100% di origine vegetale, prima di essere abbattuti a -18°C, vengono tenuti a digiuno per 24 ore. In seguito, sono sottoposti a numerosi lavaggi in acqua, per rimuovere eventuali corpi estranei, e poi ad una scottatura a 100°C, per almeno 3 minuti, in modo da sterilizzare completamente il prodotto. Successivamente, vengono disidratati, privati degli oli e, infine, macinati. Prima di essere messa in commercio, la farina viene setacciata.
L’Acheta domesticus in polvere potrà essere utilizzato come base o in aggiunta a numerose preparazioni come: pane, pizza, cracker, grissini, barrette, nelle miscele secche pronte per i prodotti da forno, nei biscotti, nella pasta secca farcita e non, nelle salse, nei prodotti a base di verdure, patate, legumi, nei prodotti sostitutivi della carne, nelle minestre in polvere, negli snack a base di farina di granturco, nella birra e nel cioccolato.
Il vantaggio principale dell’impiego di alimenti a base di insetti risiede nel fatto che, a differenza dei classici allevamenti intensivi, in particolare di bovini e agnello, allevare insetti richiede molta meno energia, acqua e terreno, oltre a liberare minori quantità di gas serra, i principali responsabili del riscaldamento a livello globale. Gli insetti, inoltre, rispetto ai bovini, a parità di cibo ingerito, sono in grado di convertirlo in un quantitativo molto superiore di massa corporea. Senza contare il fatto che, secondo i dati FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l’agricoltura) del 2013, ben l’80% di un grillo viene trasformato in farina, mentre di polli e maiali ne viene consumato solo il 55% e dei bovini il 40%.
Secondo molti scienziati, quindi, impiegando farine a base di insetti, sarebbe possibile ottenere alimenti proteici a basso impatto ambientale, rispetto ad altri tipi di prodotti attualmente in commercio. Tuttavia, al momento, il loro impiego nell’alimentazione umana è ancora piuttosto piccolo e in fase di sviluppo, di conseguenza risulta complesso stimare con precisione l’impatto ambientale che l’utilizzo di insetti potrebbe avere, una volta assunte maggiori dimensioni.
Però, gli insetti potrebbero venirci in aiuto, nel frattempo, per quanto riguarda l’alimentazione animale. Infatti, la FAO ha stimato che le loro farine potrebbero sostituire dal 25 al 100% di quelle di soia e pesce, attualmente impiegate nei mangimi per gli animali da allevamento. Tutto ciò, porterebbe sicuramente un grosso vantaggio dal punto di vista ambientale, impattando meno, in particolare, rispetto alle coltivazioni di soia. Gli insetti, infatti, possono essere allevati con materiale alimentare “riciclato” in modo ecologico dagli scarti di frutta e verdura e sono più ricchi in energia e proteine di quanto sia la soia.
Lo svantaggio più evidente, relativo all’impiego degli insetti, è senza dubbio il rischio di allergie che potrebbero scatenare in soggetti allergici a crostacei, molluschi e acari della polvere.
Non vanno, inoltre, trascurati gli aspetti culturali ed economici, entrambi spesso molto incisivi nel determinare o meno il successo di un nuovo prodotto alimentare.
Attualmente, gli alimenti a base di insetti sono molto costosi, per via della loro disponibilità limitata, e per il fatto che vengono trasformati molto (salatini, patatine, biscotti, cioccolato etc.) in maniera da renderli più appetibili e culturalmente accettati. Forse le farine di insetti, se impiegate in un prodotto insieme ad altri più “tradizionali”, potrebbero venire accettate più facilmente, ma al momento è troppo presto per fare previsioni attendibili.
Non essendoci regolamenti specifici sugli alimenti a base di insetti, al momento, in Europa, vengono utilizzate le regole in vigore per il resto del settore alimentare. Il testo di riferimento dell’Unione Europea è il Regolamento UE 2015/2283, che comprende la categoria dei “novel food” (nuovi alimenti), cioè alimenti o ingredienti mai consumati prima (in quantità tali da essere definiti “cibo”) all’interno dell’Unione Europea, prima dell’entrata in vigore del regolamento stesso.
Prima che un nuovo alimento venga autorizzato, l’EFSA conduce analisi e valutazioni specifiche rispetto al rischio che questo “novel food” potrebbe arrecare. Tale processo viene applicato ad ogni specifico prodotto, non solo all’intera categoria di cui fa parte. Nel caso degli insetti e delle loro farine, quindi, non è stato approvato l’impiego di tutti, ma solamente di quelli precedentemente descritti, vale a dire: larva gialla della farina, locusta migratoria, larve di verme della farina minore e farine di grillo domestico.
L’Unione europea ha, inoltre, specificato che quando si utilizzeranno insetti e derivati, bisognerà rispettare le stesse regole che valgono attualmente per la produzione di altri cibi: rimanere dentro i limiti consentiti per quanto riguarda certi contaminanti (come piombo e cadmio) e/o garantire l’assenza dei batteri listeria e salmonella.
Non sembra, invece, possibile il rischio di frodi o inserimenti occulti, essendo questi “novel food” piuttosto costosi: 200 g di farina di grillo costano circa 15 euro.
L’idea che questi “novel food” possano diventare una presenza fissa nei supermercati italiani ha suscitato varie polemiche e preoccupazioni.
In primis, l’allevamento di insetti è stato visto da alcuni come una minaccia a quelli tradizionali. A prescindere dal fatto che, per diminuire l’impatto ambientale e migliorare il benessere animale, sarebbe opportuno ridurre gli allevamenti intensivi, a livello globale, gli esperti del settore concordano sul fatto che le due industrie si potrebbero, inizialmente, integrare. Va specificato, infatti, che nessuno ha mai dichiarato di voler sostituire in toto la carne tradizionale con gli insetti e i loro derivati; piuttosto, questi ultimi, possono essere visti come un’opzione futura in più per garantire a tutti un’alimentazione equilibrata e a basso impatto ambientale. Questo consentirebbe: un graduale decremento degli allevamenti intensivi, la formazione dei lavoratori precedentemente impiegati negli allevamenti tradizionali e l’introduzione progressiva di alimenti a base di insetti nell’alimentazione. La costruzione di una filiera produttiva di insetti potrebbe rappresentare, inoltre, una nuova opportunità economica per il nostro e per gli altri paesi occidentali.
Però, qualcuno ha già sollevato una questione etica relativa anche all’allevamento di questi piccoli animali: se anche gli insetti sono animali senzienti, come sembrerebbero dimostrare moltissimi studi, allevarli in modo intensivo ed ucciderli sarà così diverso da quanto si sta facendo ora con pesci, uccelli e mammiferi?
Sebbene la presenza di insetti e derivati sulle tavole occidentali sia considerata una novità, mangiare insetti (entomofagia) è una realtà consolidata da millenni per molte altre culture. Secondo la FAO, infatti, circa 2,5 miliardi di persone nel mondo li mangiano regolarmente.
A seguire, qualche esempio di ricette internazionali a base di insetti.
Considerato quando descritto nei paragrafi precedenti, va detto che c’è ancora molto lavoro da fare, prima di pensare ad un utilizzo quotidiano e regolare di queste tipologie di alimenti.
Serve una legislazione nazionale che regolamenti gli allevamenti di insetti per il consumo umano; ancora molto studio da parte degli scienziati e un’attività di divulgazione attendibile, che informi e sensibilizzi i consumatori su vantaggi e svantaggi di questa nuova classe di alimenti.
Non va dimenticato, infatti, che perché questi “novel food” possano veramente prendere piede in un futuro, dovranno essere in grado di convincere un numero sufficiente di persone.
La possibilità di mangiare carne coltivata in laboratorio non è più legata allo scenario di un lontano futuro, ma è ormai diventata realtà.
In alcuni paesi, infatti, è già stata autorizzata da qualche anno la commercializzazione di questo “novel food”. Singapore, Israele, Paesi Bassi e Stati Uniti hanno avviato la produzione di carne coltivata; alcune aziende hanno messo in atto solo un approccio dimostrativo e di ricerca, per verificare la sostenibilità del processo, ma altre (fuori dall’Europa) hanno cominciato a vendere questi alimenti sia ai negozi che ai ristoranti.
In Italia e in Europa non esiste ancora il via libera alla vendita di carne prodotta in laboratorio ma, come nel caso degli insetti, nel momento in cui l’EFSA, e poi la Commissione europea, dovessero concedere il permesso alla commercializzazione di questo prodotto, sarà possibile assaggiarlo anche nel nostro paese. Infatti, per le regole comunitarie della libera circolazione di beni e servizi, anche se in Italia venissero vietate produzione e commercializzazione di alimenti realizzati in laboratorio, il Bel Paese non potrebbe opporsi alla loro importazione e distribuzione.
La carne coltivata o prodotta in laboratorio, da alcuni impropriamente chiamata “sintetica” o “artificiale”, è un alimento che si ottiene a partire dal processo di coltivazione in laboratorio di cellule staminali*, ricavate dalla biopsia indolore di specifici animali (come polli, bovini etc.) o embrioni. Le cellule di partenza (e di conseguenza la carne che ne deriverà) non hanno, perciò, nulla di “sintetico” o “artificiale” derivando, appunto, dai tessuti degli animali. La carne prodotta in laboratorio, perciò, a livello cellulare, è identica a quella convenzionale.
Una volta estratte, le cellule vengono fatte crescere in un terreno di coltura specifico, arricchito con nutrienti opportuni. Sebbene inizino a crescere e replicarsi, in questo modo non è possibile che si crei un tessuto simile a quello muscolare come quello della carne che siamo soliti consumare. Serve, quindi, che le cellule crescano intorno ad una sorta di “impalcatura” di sostegno, che possa ricreare la struttura tridimensionale tipica della carne convenzionale. Inoltre, anche per consentire una produzione più efficace, le cellule devono essere fatte proliferare all’interno di dispositivi dedicati, chiamati bioreattori. Queste apparecchiature, già utilizzate nella produzione alimentare di alimenti fermentati come lo yogurt, sono contenitori in grado di mantenere condizioni ottimali di temperatura, aerazione e flusso costante di nutrienti, replicando quelle naturalmente presenti nell’organismo dell’animale.
Al termine di questo processo, perciò, si ricava un prodotto che riproduce piuttosto fedelmente la carne ottenuta con la macellazione.
*Cellule non ancora specializzate che, a seguito di specifici stimoli, si possono differenziare nei vari tipi cellulari maturi che costituiscono i tessuti.
Come nel caso degli insetti, il vantaggio principale della carne coltivata riguarda la sostenibilità ambientale. La continua crescita della popolazione ha portato ad un conseguente aumento della richiesta di cibo, a tal punto che il consumo di carne, a livello globale, ha superato il 50% negli ultimi 20 anni. Chiaramente, non è sostenibile proseguire a questi ritmi, dato che l’industria della carne è tra le principali responsabili delle emissioni di CO2, utilizzo di energia, acqua e suolo.
Al momento, sebbene non si tratti di dati definitivi data la novità di questa tecnologia, sembrerebbe che la carne coltivata in laboratorio possa consentire di ridurre significativamente l’impatto ambientale, nel suo complesso. Una conclusione definitiva a questo proposito, però, la si potrà dare solo in futuro, se e quando il processo sarà stato ottimizzato a tal punto da garantire produzioni competitive con quelle della carne ottenuta dagli allevamenti.
Un altro elemento importante è quello etico. La produzione in laboratorio, infatti, consente di evitare la macellazione degli animali. Tuttavia, questa produzione non è ancora totalmente “cruelty free”; come accennato in precedenza, per produrre carne coltivata è ancora necessario utilizzare, almeno in parte, gli animali. Le cellule staminali sono, infatti, prelevate o da embrioni o da biopsie di animali adulti e vengono poi fatte crescere utilizzando sieri bovini di origine fetale. Va detto, però, che grazie alla costante evoluzione tecnologica, si stanno già studiando e sperimentando altri metodi che consentano di far, innanzitutto, crescere le cellule con terreni che contengano sostanze esclusivamente di origine vegetale. Si spera che, in futuro, la creazione di questa tipologia di prodotto possa avvenire evitando del tutto l’impiego degli animali.
Lo svantaggio più evidente che emerge parlando di carne coltivata riguarda senza dubbio la qualità sensoriale. È evidente, infatti, che riprodurre con precisione tutte le caratteristiche di consistenza, sapore e odore della carne originale sarà estremamente complesso, anche se in futuro, grazie ai progressi della ricerca, tali aspetti potranno probabilmente migliorare. Tuttavia, bisognerà sempre fare attenzione a che questo non richieda un utilizzo eccessivo di aromi e/o altre sostanze, che farebbero diventare questo tipo di carne a tutti gli effetti un alimento molto processato.
Un altro elemento a sfavore è quello relativo ai valori nutrizionali. Senza dubbio la qualità proteica della carne prodotta in laboratorio è identica all’originale, ma altri nutrienti, come vitamine e minerali, non potranno formarsi naturalmente e dovranno essere integrati a parte.
A parte quanto detto rispetto alle necessità di aggiungere particolari aromi, sostanze e nutrienti alla carne prodotta in laboratorio, dal punto di vista della sicurezza alimentare, non sembrano emergere particolari criticità.
Anzi, per certi aspetti, potrebbe risultare meno problematica di quella tradizionale. Producendo il cibo in laboratorio, infatti, è possibile evitare l’utilizzo massiccio di antibiotici e ormoni, che vengono molto impiegati nell’allevamento intensivo. Altro punto interessante: la “coltivazione” consentirebbe di produrre un alimento meno ricco di grassi saturi e/o colesterolo, oltre a non presentare il rischio di contaminazione da patogeni che potrebbero affliggere l’animale allevato.
Attualmente sono pochi i paesi dove si è iniziato a commercializzare la carne coltivata (Singapore, Israele e Stati Uniti) e l’Unione europea non è tra questi. Come nel caso degli insetti, infatti, siamo di fronte ad un “novel food”; perciò, si dovrà scientificamente dimostrare che non sia in alcun modo dannoso per la salute, superando tutti gli stretti controlli e la decisione finale dell’EFSA, prima che ne venga autorizzata la vendita negli stati dell’Unione.
Se/quando questo avverrà, anche in Italia sarà possibile assaggiare i prodotti a base di carne coltivata in laboratorio, provenienti di qualsiasi paese dell’Unione Europea.
Proprio come nel caso degli insetti, anche l’idea dell’impiego di carne prodotta in laboratorio ha scatenato un forte dibattito, nel nostro paese.
Il primo aspetto controverso riprende lo stesso timore scatenato dall’impiego di insetti, ovvero che questo “novel food” possa determinare la scomparsa degli allevamenti intensivi, comportando una riduzione dei posti di lavoro per le persone impiegate in questa industria e favorendo, invece, l’arricchimento delle poche aziende private che attualmente producono carne coltivata. Tra le altre cose, la carne coltivata in laboratorio ha costi molto elevati che, non rendendola alla portata di tutti, non ne fanno, attualmente, un prodotto economicamente sostenibile. Non è possibile, però, escludere che in futuro, grazie anche ai progressi nella ricerca, lo possa diventare.
Altri aspetti dibattuti sono stati già descritti nei paragrafi precedenti:
Esistono, infine, delle forme di resistenza culturale e psicologica. È interessante citare l’esempio degli Stati Uniti: sebbene sia il paese dove sono nate le principali aziende del settore e in cui sia già in corso la commercializzazione di carne prodotta in laboratorio, in questa parte del mondo si registra il più alto consumo pro-capite mondiale di carne rossa da allevamenti. I consumatori meno progressisti, perciò, rifiutano quest’innovazione alimentare e alcuni uomini ritengono, addirittura, che mangiare carne tradizionale sia necessario per affermare la mascolinità.
Altri individui, anche in paesi differenti, hanno, invece, a volte mostrato una diffidenza dopo l’assaggio della carne coltivata, ritenendola “troppo buona e simile a quella tradizionale”. Come se questo fatto, potesse nascondere manipolazioni o aggiunte di ingredienti “segreti” di dubbia salubrità.
Per concludere, è opportuno fare presenti alcuni aspetti cruciali, simili a quelli descritti nel paragrafo sugli insetti.
La ricerca e la tecnologia messe a punto per creare carne coltivata in laboratorio, sono ancora più recenti di quelle impiegate nella produzione di alimenti a base di insetti. Molte delle preoccupazioni descritte, quindi, non hanno ragione di esistere, perché non ci sono ancora abbastanza elementi per pensare che si andrà verso un utilizzo massiccio di questa tipologia di cibo. Se si dovesse arrivare, comunque, ad aumentarne la produzione, ciò non implicherebbe la scomparsa degli allevamenti tradizionali, ma potrebbe offrire, piuttosto, delle ulteriori possibilità alimentari, per i consumatori di carne, e lavorative, andando ad aprire un nuovo settore tecnologico/industriale.
Andranno ancora affrontate molte sfide, quindi, prima che la carne coltivata diventi un prodotto ampiamente disponibile, etico, sicuro e sostenibile, anche dal punto di vista economico.
La carne prodotta in laboratorio, ad oggi, può essere commercializzata per il consumo solo negli Stati Uniti, a Singapore e in Israele. In tutti questi paesi, tuttavia, tali prodotti non sono ancora disponibili nei supermercati, ma solo in alcuni ristoranti.
Qualche esempio a seguire.
Non solo insetti e carne coltivata in vitro, si è aperta ufficialmente anche l’era di latte e latticini prodotti in laboratorio.
Sebbene non al livello delle carni rosse, anche latte e latticini esercitano un impatto ambientale non indifferente. Basti pensare che per produrre 1 kg di latte servono circa 628 litri di acqua e 9 metri quadrati di terreno. Le motivazioni che hanno portato alla creazione di questo “novel food” sono, quindi, molto simili a quelle viste in precedenza, parlando di insetti e carne coltivata.
Anche se nel caso di latte e latticini produzione e commercializzazione sono fenomeni più recenti, rispetto a carne ed insetti, in alcuni paesi è già possibile mangiarli.
Per produrre latte e latticini in laboratorio, si sfrutta lo stesso processo usato per realizzare alimenti lievitati come il pane: la fermentazione di precisione ad opera di particolari lieviti (della stessa famiglia del lievito di birra e di quelli usati in panetteria). Il gene responsabile della produzione delle proteine del latte vaccino viene copiato ed inserito nel lievito. Quest’ultimo può, quindi, utilizzare il gene come se fosse una sorta di “libretto delle istruzioni” che spiega come produrre, in modo altamente efficiente, la proteina del latte. Per essere in grado di generare grosse quantità di latte, i lieviti vengono messi nei fermentatori, dove si moltiplicano molto rapidamente e, di conseguenza, producono numerose proteine del latte, totalmente identiche a quelle vaccine.
L’ultimo passaggio consiste nell’aggiungere vitamine, minerali, grassi e zuccheri non animali (cosa che rende questi latticini privi di colesterolo, lattosio e senza ormoni della crescita e antibiotici); successivi processi di tecnologia alimentare (praticamente identici a quelli già utilizzati partendo dal latte vaccino) possono consentire di creare, a partire da questa base, vari derivati: dalla panna montata ai formaggi stagionati.
Gli ideatori di questi “novel foods” sostengono che i latticini coltivati in laboratorio risultino, dal punto di vista organolettico, identici a quelli tradizionali.
I vantaggi più evidenti legati all’impiego di queste tipologie di alimenti sembrerebbero, nuovamente, di tipo ambientale ed etico. Per produrre la stessa quantità di latte di una fattoria tradizionale, infatti, viene utilizzato il 99% in meno di suolo, liberando quantità molto inferiori di CO2 e risparmiando acqua. Gli animali, inoltre, non verrebbero più sfruttati, nemmeno per produrre i latticini.
Secondo diverse stime, i latticini coltivati potrebbero venire bene accolti dal mercato globale, in particolare dai più giovani, meno timorosi, più curiosi e disposti a percorrere strade alternative per abbattere le emissioni.
Sebbene, quindi, secondo alcuni quello della fermentazione di precisione sia un mercato in crescita (in particolare in Israele e negli Stati Uniti), stiamo vivendo una fase ancora troppo precoce per comprendere appieno il tipo di opportunità economiche che potrebbe offrire a livello mondiale, in un prossimo futuro.
Più che di veri e propri svantaggi, al momento, sarebbe più corretto parlare di problemi da risolvere, prima che prodotti di questo tipo diventino “di uso quotidiano” in Europa e, in particolare, in Italia. Il primo aspetto da considerare è quello delle caratteristiche nutrizionali che dovranno essere del tutto paragonabili a quelle degli alimenti di provenienza, per venire accettati anche dai palati più esigenti.
Inoltre, andranno definiti vari aspetti normativi (etichettatura, scadenza, conservazione etc.) che vedranno probabilmente delle differenze a seconda del paese considerato.
Infine, un altro limite, anche in questo caso, è il costo, attualmente troppo elevato e che si ipotizza potrà diventare equiparabile a quello degli analoghi classici solo quando esisterà una produzione su ampia scala di latte e latticini prodotti in laboratorio.
Nei paesi in cui è legale la commercializzazione e il consumo di latticini prodotti in laboratorio (Israele, Stati Uniti, Singapore), le rispettive autorità competenti, come la FDA in USA, ne hanno prima attestato la completa sicurezza per il consumo umano.
In Europa, invece, l’iter di approvazione normativo non è nemmeno cominciato. Solo se e/o quando l’EFSA dichiarerà che questa tipologia di alimenti non sono in alcun modo dannosi per la salute, ne potrà essere autorizzata la vendita anche negli stati dell’Unione.
In Italia, anche i latticini prodotti in laboratorio sono da molti visti più che come un’opportunità, come una minaccia. Il settore della trasformazione del latte tradizionale, infatti, è il primo per dimensioni di tutto l’agroalimentare italiano, esiste, quindi, il timore che questo comparto possa risentire della concorrenza delle aziende che producono latte in laboratorio.
Come già detto parlando delle carni coltivate, non ci sono fattori, al momento, che possano preoccupare in tal senso, non esistendo alcun elemento per ipotizzare che, nel nostro paese, si passerà, a breve, ad un utilizzo massiccio di questa tipologia di alimenti.
Se mai l’EFSA dovesse approvarne l’impiego e alcune aziende italiane iniziassero ad utilizzare questo tipo di latte per le produzioni casearie, non c’è motivo di pensare che ciò implicherebbe la totale scomparsa del comparto che utilizza il latte tradizionale. Piuttosto, potrebbero gradualmente nascere nuovi settori tecnologici/industriali a minor impatto ambientale con la potenzialità di offrire ulteriori possibilità economiche ed alimentari per lavoratori e consumatori.
Anche in questo caso è stata un’azienda israeliana ad avere, per la prima volta, prodotto latticini in laboratorio. Nata nel 2019, la Remilk è la startup leader nello sviluppo di proteine analoghe a quelle del latte vaccino. Il Ministero della Sanità di Israele ha da poco stabilito che Remilk può commercializzare il latte coltivato in laboratorio e i suoi derivati all’interno del paese. Poco dopo questo permesso, la FDA statunitense ha attestato la sicurezza del prodotto per il consumo umano, rendendone quindi possibile l’ingresso nel mercato statunitense. Negli Stati Uniti esistono anche aziende e start up locali che a loro volta stanno producendo latte e latticini coltivati, ad esempio la Perfect Day, il cui latte può essere assaggiato in alcuni negozi della catena Starbucks, a Seattle.
Anche la Singapore Food Authority ha autorizzato la vendita di latte e derivati prodotti in laboratorio nel proprio paese, dove esiste un’altra nota azienda, la TurtleTree Labs, molto attiva nella ricerca e nella produzione di queste tipologie di “novel foods”.
In Australia, si trova, invece, la startup Eden Brew, che ha già prodotto latte “in vitro” per lo Stato di Victoria.
Infine, anche l’India, con l’azienda biotech Zero Cow Factory, ha cominciato ad investire in questo mercato.
Se gli allevamenti di mammiferi e pollame sono responsabili di circa il 20% delle emissioni globali, anche pesca e allevamenti ittici presentano numerose criticità. Innanzitutto, la crescente domanda di prodotti ittici, che si stima raggiungerà circa i 28 milioni di tonnellate nel 2030, renderà la pesca ulteriormente inquinante e aggressiva, a tal punto da depauperare mari e oceani in modo irreparabile. Inoltre, non va dimenticato che gli animali allevati con le tecniche di acquacoltura possono venire colpiti da malattie, cosa che porta all’utilizzo, spesso abbondante, di farmaci e antibiotici nel tentativo di prevenirle o curarle.
Per tutte queste ragioni, l’ultima frontiera della tecnologia alimentare, per un futuro più sano e sostenibile, riguarda proprio la messa a punto della produzione di pesce coltivato in laboratorio.
Non si parla di semplici surrogati, peraltro già esistenti, come il surimi, che si ottengono generalmente con farine di pesce o scarti aromatizzati, colorati e infine modellati in base alle richieste del mercato. Si tratta proprio di pesce derivato da cellule staminali, con un processo, in tutto e per tutto, simile a quello precedentemente descritto parlando della carne coltivata in laboratorio.
Come nel caso della carne, il pesce coltivato in laboratorio origina dagli stessi elementi del pescato, perché deriva da poche cellule staminali prelevate da un animale vivo, che non deve poi essere necessariamente soppresso. Una volta estratte, le cellule vengono fatte replicare e differenziare in appositi terreni e sieri così da creare diversi tipi di tessuti (muscolo, grasso e tessuto connettivo). Infine, vengono compattate usando strutture 3D commestibili (bioscheletri, di cui alcuni in studio sono di origine vegetale) in modo da conferire loro la forma desiderata.
Alcune start up utilizzano per la produzione i bioreattori, come abbiamo visto nel caso della carne, altre come l’azienda israeliana Steakholder Foods, in collaborazione con Umami Meats, di Singapore, hanno, invece, prodotto filetti di cernia pronti per essere cucinati e mangiati, con la stampante 3D. In sostanza, il filetto si forma man mano che la stampante scorre avanti e indietro, immagazzinando massa ad ogni passaggio. I filetti che ne originano, vengono anche colorati con appositi “bioinchiostri”. Secondo i produttori, il composto finale avrebbe la stessa friabilità del pesce tradizionale e, una volta condito, sarebbe da questo difficilmente distinguibile.
Sebbene le cellule staminali di pesce non richiedono temperature controllate e in generale crescano e si sviluppino meglio, e con minori accorgimenti tecnici, rispetto a quelle della carne, la struttura tridimensionale che ne risulta non è ancora ottimale. Tuttavia, dal punto di vista organolettico sembra che il prodotto finale (in termini di consistenza, profumo, e aspetto) sia molto simile all’originale.
Dati i problemi “strutturali” al momento ancora in corso, la maggiore produzione di pesce coltivato è attualmente relativa alle polpe, più semplici da ottenere tecnicamente.
Alcune delle start up, produttrici di pesce coltivato in laboratorio, offrono assaggi al pubblico in luoghi dedicati da cui si riesce ad assistere ai processi produttivi. L’idea è che questa trasparenza, renda le persone meno diffidenti e più disponibili a provare questi novel foods, in un prossimo futuro.
Sebbene la tecnologia di produzione del pesce coltivato sia in una fase estremamente precoce, è già possibile intravedere alcuni vantaggi che potrebbe comportare nel prossimo futuro.
Innanzitutto l’aspetto ambientale, perché consentirebbe di aiutare a salvaguardare gli ecosistemi marini e la loro biodiversità; ma non solo, questo prodotto potrebbe portare anche dei vantaggi salutistici per i consumatori. Infatti, non solo sarà libero da microplastiche e metalli pesanti (che si accumulano nei pesci) ma potrà contenere maggiori quantità di specifici nutrienti utili alla salute, come per esempio gli acidi grassi omega-3. Infine, non dimentichiamo che non sarà più necessario né pulire l’animale da lische e organi interni, né uccidere varie tipologie di pesci oggi a grosso rischio di estinzione.
Sebbene i costi di produzione siano al momento altissimi, in un futuro in cui la tecnologia sarà stata ulteriormente affinata, non è irrealistico pensare di riuscire ad abbassare i costi di produzione, in laboratorio, di pesci che, pescati tradizionalmente, sono estremamente costosi. Questo potrebbe essere il caso del tonno rosso, che negli Stati Uniti può arrivare a costare più di 200 euro al chilo.
Oltre ai prezzi al momento esorbitanti per la produzione di pesce coltivato in laboratorio, gli altri svantaggi riguardano, come accennato in precedenza, alcuni aspetti tecnologici. Sebbene il processo di realizzazione sia più semplice rispetto a quello che serve per produrre carne di manzo, le cellule staminali dei pesci sono state meno studiate, perciò i terreni e i sieri in cui amano crescere, in maniera efficiente, sono poco conosciuti dagli scienziati. Alcuni ricercatori stanno anche valutando l’impiego di sieri di origine vegetale, che risultano però molto complessi da produrre ed estremamente costosi.
Secondo alcune stime, attualmente il costo di produzione di 1 kg di proteine di pesce varia da 150 a 20 000 dollari. Si ipotizza e si spera, però, che, come per la carne, la produzione su larga scala potrà rapidamente abbattere i costi, rendendo anche questi prodotti accessibili a tutti.
Ovviamente si sta parlando del futuro, dato che al momento nessuno di questi alimenti è disponibile in supermercati e ristoranti. Sembrerebbe, tuttavia, che, almeno negli Stati Uniti, il percorso normativo da seguire per definirne la sicurezza alimentare potrebbe essere più semplice, rispetto a quanto accaduto per le carni. Questo perché il pesce rientrerà solo sotto il controllo della FDA e non anche sotto quello del Dipartimento dell’agricoltura (USDA), come per le carni.
In Europa, come già ripetuto più volte, se e quando sarà necessario valutare la sicurezza del pesce coltivato in laboratorio, l’iter di approvazione normativo spetterà all’EFSA. Solo se tale ente dichiarerà che questa tipologia di alimenti non sono in alcun modo dannosi per la salute, ne potrà essere autorizzata la vendita anche negli stati dell’Unione.
Al momento, nel nostro paese, non sono insorte particolari polemiche relative al consumo di questa tipologia di alimenti, forse perché il loro possibile impiego è visto ancora come estremamente lontano. Come nei casi descritti in precedenza, non possiamo in alcun modo ipotizzare che in Italia si assisterà, necessariamente, ad un ampio utilizzo di questi novel foods. Tuttavia, se l’EFSA dovesse approvarne l’impiego e alcune start up italiane iniziassero a produrre pesce coltivato, non abbiamo al momento alcun elemento per pensare che ciò avrebbe un impatto necessariamente negativo sul lavoro di pescatori e/o allevatori di pesce. Al contrario, questi lavori potranno/dovranno essere salvaguardati, con apposite formazioni, ed eventualmente trasformati in occupazioni diverse, ma sempre all’interno della stessa filiera.
Negli anni a venire, grazie ai progressi della ricerca e ai continui studi tecnologici, oltre ad opportune previsioni socio-economiche, si comprenderà se questo settore potrà apportare benefici all’ambiente e assicurare a tutti la possibilità di mangiare pesce con un buon valore nutrizionale, privo di contaminanti, farmaci e microplastiche.
Nel mondo, ad oggi, esistono più di 10 aziende e start up che stanno lavorando sul pesce allevato in laboratorio. Queste stanno cercando di produrre svariate tipologie di prodotti ittici, come per esempio: salmone, tonno, caviale, aragosta, pesce azzurro, gamberi, carpe e trote.
Come già visto nei paragrafi precedenti, i paesi più attivi in questa ricerca e produzione sono Israele, Singapore e gli Stati Uniti. Tuttavia, stanno nascendo partnership oltre che con altri paesi asiatici, anche con aziende che hanno sede in UK o in Svizzera. Un’azienda tedesca, invece, ha ottenuto da poco un grosso finanziamento (8 milioni di dollari) per iniziare a produrre varie specie ittiche marine.
Come nei casi precedenti, è assolutamente prematuro dire che in un prossimo futuro ci nutriremo regolarmente di pesce coltivato in laboratorio. Tuttavia, anche queste ricerche sono importantissime per capire come potremo nutrire in modo sostenibile i 9 miliardi di esseri umani che popoleranno il pianeta nel 2030.
Come discusso nei paragrafi precedenti, sebbene varie tipologie di alimenti che non avremmo mai pensato di mangiare anche solo 5 anni fa, stiano diventando una realtà, il loro impiego attuale è tutt’altro che diffuso e regolare. Nella maggior parte dei casi, dovremo aspettare ancora molto tempo prima di capire se e come li potremo utilizzare a livello globale, nella vita di tutti i giorni.
È importante comprendere che insetti, carni, latticini e pesce coltivati in laboratorio potranno probabilmente rappresentare delle alternative al consumo di alimenti proteici di origine animale, derivanti dai super inquinanti allevamenti intensivi. Non dobbiamo, però, vederli come le uniche o principali opzioni alimentari che consentiranno a tutti di mangiare, impattando meno sull’ambiente.
Già adesso, infatti, possiamo mettere in atto comportamenti più sostenibili, scegliendo di seguire un’alimentazione ricca di alimenti di origine vegetale, come quella mediterranea, e prediligendo come fonte proteica i legumi (che possono essere consumati anche 5 volte a settimana), associati ai cereali, meglio se integrali. Sebbene, presi singolarmente, legumi e cereali siano carenti di alcuni aminoacidi essenziali, la loro combinazione consente di assumerli tutti e nelle corrette quantità. Inoltre, questa associazione non deve necessariamente avvenire durante lo stesso pasto, è sufficiente mangiarli nel corso della medesima giornata.
Anche i derivati della soia, come il tofu, contano come una porzione di legumi; inoltre, un’altra alternativa per non consumarli sempre “tal quali” è quella di mangiarli sotto forma di burger.
Per chi non ha tempo di preparali è oramai molto facile trovarli in tutti i supermercati. Basti pensare a quelli a base di proteine della soia o del pisello, che, combinati e insaporiti anche con altri ingredienti di origine vegetale, ricordano la consistenza e, a volte, il sapore della carne tradizionale. Attenzione, però, meglio utilizzare questi alimenti solo saltuariamente: sono molto processati e spesso ricchi di sale e di altri ingredienti non sempre salutari (come zuccheri e grassi saturi).
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Per chi lo desiderasse, è anche possibile trovare in commercio alimenti derivati dall’attività di particolari organismi, quali funghi e lieviti, che, attraverso specifici processi fermentativi, producono proteine alternative a quelle della carne. Ciò che si ottiene da questi processi di fermentazione, viene successivamente impastato con albume d’uovo o patate (per la versione vegana), dando origine ad un alimento dalla consistenza che ricorda quella della carne, anche se il sapore e l’aspetto sono molto diversi da quelli della tipica bistecca.
Sia questi prodotti che i burger vegetali hanno un impatto ambientale basso, ma superiore a quello dei legumi in quanto tali. Tuttavia, attualmente, stimare gli effetti sull’ambiente di queste tipologie di alimenti non è semplice, essendo ancora consumati da poche persone. Se, con il passare del tempo, alcune di queste soluzioni diventeranno più diffuse, si potrà capire meglio quale sia il loro impatto ambientale effettivo.
Come ribadito più volte in questo articolo, il consumo di carne rossa impatta moltissimo a livello ambientale; non solo, un’assunzione moderata di questo alimento viene suggerita anche dalle maggiori istituzioni scientifiche che si occupano di salute umana. Infatti, la carne rossa fresca può far parte di una sana alimentazione solo se assunta con moderazione (massimo 500 g a settimana) ed utilizzando metodi di cottura adeguati (ovvero limitando/non impiegando le cotture alla piastra, brace e griglia) Le carni lavorate, invece, andrebbero evitate o consumate solo in rare occasioni.
In attesa che si chiarisca il ruolo che alimenti a base di farine di insetti, carni, latticini e pesce coltivati in laboratorio potranno avere sull’alimentazione globale, per consentire di nutrire il pianeta, limitando le emissioni, il consiglio è quello di adottare una dieta che prediliga il consumo di alimenti di origine vegetale, i quali non solo impattano meno sull’ambiente, ma esercitano anche numerosi effetti positivi sulla salute.
Vuoi essere più sostenibile a tavola? Segui il modello del Piatto Smart! Vuoi saperne di più sulla dieta vegetariana e vegana? Leggi qui il nostro articolo Sport e dieta vegetariana e vegana, un connubio possibile? Scoprilo quiChi conosce l’inglese, può farsi un’idea di quanto si sappia, al momento, sulle differenze in termini di impatto ambientale, tra la produzione di carne convenzionale e quella di alcune fonti proteiche alternative (tra cui la carne coltivata in laboratorio e i sostituti vegetali), leggendo questo articolo e consultando i grafici riportati da Hannah Ritchie. La Dott.ssa Ritchie, ricercatrice e “data scientist” britannica dell’Università di Oxford, è anche a capo della ricerca presso “Our World in Data”. Questa pubblicazione online - nata dalla cooperazione tra un team di ricercatori dell’Università di Oxford e l’organizzazione no-profit “Global change data lab” - monitora costantemente l’impatto internazionale di tematiche quali povertà, sostenibilità, salute, sistemi alimentari globali, conflitti e diseguaglianze.